12.1.09

Verso il 12 dicembre… e oltre (24/11/08)


Verso il 12 dicembre… e oltre

ovvero cosa ci aspetta e cosa dobbiamo fare

Le ultime settimane sono state più che movimentate sul fronte politico-sociale. Hanno visto la prosecuzione della mobilitazione di quei settori che da metà settembre in poi sono stati all’avanguardia delle lotte, dal mondo della scuola (coordinamenti di genitori e lavoratori) e del movimento studentesco (Onda anomala) alla lotta dei lavoratori Alitalia. Nonostante i passaggi di forza del Governo, deciso a tirare dritto sia sulla riforma Gelmini che sulla vicenda CAI, continuano le mobilitazioni tra alti e bassi e con alcune difficoltà, i cui motivi affronteremo di seguito.

Sono scesi in campo anche nuovi comparti del mondo del lavoro e della società, come espressione del malcontento esistente e diffuso nei confronti della politica del Governo e dell’offensiva che Confindustria intende portare avanti, oltre che di una generale e perdurante sfiducia.

Ecco alcuni dei principali mobilitazioni e passaggi di questo ultimo periodo:
· 17 ottobre, sciopero generale del sindacalismo di base, con una massiccia partecipazione studentesca;
· 30 ottobre, sciopero generale della scuola indetto dai confederali, sempre con una forte partecipazione studentesca;
· 3, 7 e 14 novembre, scioperi e manifestazioni per i settori centro, sud e nord del Pubblico Impiego indetti dalla CGIL FP (funzione pubblica);
· Assemblea dei delegati FIOM con delegazione di studenti: viene lanciato lo sciopero dei metalmeccanici;
· 7 novembre, giornata nazionale di mobilitazioni cittadine del movimento studentesco;
· 11 novembre, terzo sciopero generale del settore trasporti e sciopero selvaggio dei lavoratori Alitalia di Fiumicino;
· 14 novembre, sciopero generale di Università e Ricerca (CGIL e UIL), affiancato dalla manifestazione nazionale degli studenti;
· 15 novembre, sciopero del settore terziario (FILCAMS CGIL);
· 22 novembre, manifestazione nazionale delle donne contro violenza, abusi e discriminazioni, molto partecipata;
· 20 e 25 novembre, scioperi generali territoriali a Brescia e a Casale Monferrato contro l’ondata di licenziamenti.

Naturalmente tutte queste iniziative non possono essere messe sullo stesso piano, né per valenza e motivazione politica né per quanto riguarda i livelli di mobilitazione, le loro cause e il loro significato. Si tratta invece di registrare una tendenza generale che, come cercheremo di argomentare, dà precise indicazioni politiche rispetto ai compiti cui siamo oggettivamente chiamati a rispondere.
Un governo più debole di quello che sembra, un’opposizione parlamentare fantasma e una pressione dal basso che ha trasformato il panorama sociale e politico

L’ondata di mobilitazioni di centinaia di migliaia di giovani e di lavoratori nelle ultime settimane ha fondamentalmente dimostrato tre cose:

a. che il governo attuale è ben lontano dall’essere una potente macchina da guerra, un rullo compressore. Al contrario, sebbene si sforzi di trasmettere un’immagine di Esecutivo forte – perseguendo, attraverso l’uso di un linguaggio populista e securitario, l’obiettivo di travolgere conquiste e diritti –, esso trae la sua forza dall’anestesia sociale in cui si è trovato il movimento dei lavoratori e degli studenti a partire dall’arrivo al potere di Prodi nel 2006. L’attuale combinazione di mobilitazione sociale e di crisi economica (che nel futuro prossimo peggiorerà di molto, con conseguenze pesantissime sui lavoratori e su tutti i settori popolari) fa sì che oggi questo Governo si ritrovi sulla difensiva. Ovviamente ciò non vuol dire che si siano ribaltati i rapporti di forza, che continuano a essere sfavorevoli alla nostra classe. Evidenzia però che il Governo di Berlusconi, come temevano i settori più lungimiranti della grande borghesia italiana, dimostra chiaramente di non essere la soluzione politica e sociale più adeguata per tutelare al meglio i loro interessi e guidare lo scontro sociale a loro vantaggio, come era riuscito a fare negli ultimi mesi il governo Prodi-D’Alema-Ferrero;

b. che l’opposizione parlamentare democratica del PD si è completamente eclissata. Malgrado il successo veltroniano della manifestazione del 25 ottobre, l’opposizione – incalzata dalle ultime lotte sociali – ha scelto di restare in seconda fila, “facendo opposizione” su temi insignificanti quali la vigilanza RAI per far meglio dimenticare di essere fondamentalmente d’accordo con l’agenda governativa anti-proletaria e anti-popolare, agenda che lo stesso centro-sinistra ha preparato quando stava al governo. Per inciso, ciò dà spazio all’IdV, che a buon prezzo può ricavarsi un’immagine di opposizione intransigente. In una fase di acutizzazione dello scontro sociale, il ruolo dell’opposizione borghese di centro-sinistra, come già ricordava all’epoca del movimento anti-CPE Dominique Strauss-Khan, dirigente del Partito Socialista francese e attuale direttore del FMI, “non è quello di buttare benzina sul fuoco” ma il contrario; l’ha ricordato D’Alema nelle ultime settimane: occorre dialogare con il Governo per trovare una via d’uscita alla crisi. Per quel che riguarda l’ex sinistra radicale, è ancora impegolata nelle sue contraddizioni interne dopo la batosta elettorale e, quindi, malgrado il successo della manifestazione dell’11 ottobre, non è riuscita a prendere piede all’interno del movimento studentesco e giovanile, contentandosi di assecondare sul terreno sindacale il presunto “nuovo corso” di Epifani;

c. che oggi esiste nel mondo del lavoro una significativa pressione, una spinta parziale ma reale verso la mobilitazione, spinta che ha incontrato il movimento studentesco, il quale ha agito da cassa di risonanza delle contraddizioni sociali e politiche attuali. La combinazione di questi due elementi, da un lato e, dall’altro, l’intransigenza padronale e la sfacciataggine reazionaria del Governo hanno forzato la direzione della CGIL a rompere formalmente con la logica del dialogo nella quale si era impegnata fino ai primi di settembre, per arrivare infine alla proclamazione dello sciopero generale. La CGIL ha quindi dovuto farsi portavoce e cavalcare il malcontento presente pressoché in tutti i settori dei lavoratori per non esserne scavalcata, per evitare che essi si esprimessero in forme che sfuggissero al suo controllo.

Su un altro fronte, la stessa mobilitazione dei lavoratori della CGIL e degli studenti ha obbligato la maggioranza delle organizzazioni sindacali di base (incomprensibilmente ferme dopo lo sciopero del 17 ottobre) a dover fare i conti con l’agenda imposta alla burocrazia della CGIL.

Pensiamo però che l’elemento centrale di questa “svolta a sinistra” da parte della CGIL (che è solo formale poiché non cambia in alcun modo la sua natura di sindacato “di Stato”), che sembra accontentare i settori meno filo-Epifani (l’opposizione delle componenti di sinistra della CGIL), sia fondamentalmente legata all’insofferenza e alla pressione esistente in importanti comparti del mondo del lavoro, non solo in Italia ma anche in Europa.

Se non si vede o si sottovaluta la presenza di questa spinta, si rischia di leggere le iniziative della CGIL in modo politicista e quindi fuorviante, attribuendo ad altri fattori, presenti ma secondari, un ruolo determinante che non hanno. Questi fattori sono la posizione intransigente del Governo e il suo tentativo di isolare la CGIL tagliandola fuori dai tavoli di contrattazione; la pressione delle componenti di sinistra della CGIL (FIOM, Rete 28 aprile e Lavoro e Società), di cui la maggioranza di Epifani deve tenere conto; la pressione esercitata dalla mobilitazione del sindacalismo di base, che tuttavia, dopo l’exploit del 17 ottobre, è stata sostanzialmente alla finestra.

L’argomento – usato anche da settori del sindacalismo di base, compresi quelli che hanno deciso di non partecipare allo sciopero – che lo sciopero della CGIL risponda alla logica tutta politica di fare un favore all’opposizione di centro-sinistra è poco convincente. Abbiamo già detto che in questa fase il centro-sinistra ha deciso di non fare alcuna opposizione reale, e ben poca sponda sta dando alle lamentele e alle rivendicazioni della CGIL; e questo non solo perché nel PD convivono accanto a quella cigiellina dei DS anche le anime dei settori politici che fanno riferimento a CISL e a UIL (il che spiega la linea di complessiva equidistanza tenuta dal PD negli scontri interconfederali) ma soprattutto perché, di fronte alla prospettiva certa dell’acuirsi della crisi, c’è da aspettarsi una gestione sempre più bipartisan dei problemi sociali: tutti uniti – destra e sinistra – per far pagare la crisi a lavoratori e ceti popolari e cercare di salvaguardare la pace sociale, buttando acqua sul fuoco delle lotte.

La spinta proveniente dal mondo del lavoro è invece l’elemento qualificante per capire cosa induca la CGIL a fare quello che fa e in questa forma. Non a caso un analogo fenomeno si riscontra, in questa fase, anche in alcuni paesi europei: le principali sigle sindacali, ugualmente concertative, sono state costrette a promuovere un’ondata di mobilitazioni, come lo sciopero generale in Grecia del 23 ottobre, i ripetuti scioperi della pubblica istruzione in Francia o l’annuncio, da parte delle otto organizzazioni sindacali transalpine, di una giornata di mobilitazione contro la crisi a gennaio; lotte durissime si stanno svolgendo in Catalogna nel settore automobilistico, mentre gli studenti sono entrati in mobilitazione in Germania e in Spagna; in Germania il sindacato metalmeccanico, con un governo amico (di cui fa parte la SPD), è stato costretto a convocare uno sciopero cui hanno partecipato 500.000 operai con richieste di aumenti salariali del 8%.

La possibile ricomposizione delle varie vertenze in un unico fronte sociale diviene insomma uno spauracchio per la borghesia; di conseguenza, guardando al 12 dicembre, occorre trarre un bilancio dell’autunno per fare in modo che, a partire delle lotte in atto, si creino le condizioni per un’azione più incisiva contro Governo e Confindustria, per affrontare da una posizione più vantaggiosa l’offensiva che si profila e che sarà resa ancor più pesante dagli imperativi economici posti in essere da una crisi che va radicalizzandosi e generalizzandosi e il cui prezzo la borghesia intende scaricarci sul groppone.

Lo straordinario impatto dell’onda anomala studentesca e i suoi limiti politici

L’altra componente delle mobilitazioni, per certi versi la più dinamica, è stata il movimento studentesco, che ha occupato le prime pagine dei giornali per settimane: l’attacco ai diritti della scuola è costato moltissimo a Berlusconi in termini di consenso. Basta un unico dato per valutarne l’ampiezza: dal 10 ottobre fino a metà novembre dalle autorità sono state registrate sull’intero territorio nazionale niente meno che 650 “azioni”; e, si badi bene, non si tratta di azioni dei piccoli gruppetti dei soliti militanti politici sempre presenti negli istituti o nelle università che, anche dopo la sconfitta della lotta contro la riforma Moratti nel 2004, hanno continuato a esistere e a battersi. Stiamo parlando delle azioni portate avanti quotidianamente dagli studenti medi fino alla fine di ottobre, delle manifestazioni imponenti degli studenti del 7 e del 14 novembre, di tutte quelle iniziative in cui, al grido di “la crisi noi non la paghiamo”, il movimento studentesco è confluito in diverse occasioni con il mondo della scuola e del lavoro, in particolare (e non solo) il 17 e il 30 ottobre, per lo sciopero generale del sindacalismo di base e quello della scuola indetto dai confederali (cui pure sono stati costretti a partecipare i COBAS del comparto scuola).

L’importanza e l’estensione nazionale del movimento ha permesso inoltre di arrivare, dopo la giornata di manifestazione nazionale del 14 novembre, all’assemblea nazionale di Roma del 15 e del 16 novembre: era dal 1990, dalle assemblee di Palermo e di Firenze della Pantera contro la riforma Ruberti, che non si vedevano in Italia assemblee nazionali degli studenti.

Questo appuntamento ha avuto in sé una doppia potenzialità: da un lato, come strumento per superare i localismi, le separazioni tra le singole città e i singoli atenei; dall’altro, come possibile momento di discussione dei contenuti e delle prospettive del movimento, sia rispetto al mondo della scuola e dell’università (la questione dell’autoriforma) sia rispetto al mondo sociale in generale.

In quella occasione è stata ribadita l’esigenza di partecipare allo sciopero generale del 12 dicembre, un’esigenza alla quale già avevano fatto appello gli studenti della Sapienza occupata il 31 ottobre, chiedendo che “le sigle sindacali (confederali e di base), indipendentemente dalle loro divergenze programmatiche, [abbiano] capacità di capire quanto sta accadendo nel paese e quale domanda di rottura e di trasformazione si sta radicando ed estendendo socialmente. Capire, ma anche agire di conseguenza e questa azione non può essere che lo sciopero, generale e generalizzato”.

Riteniamo però che, per molti versi, la due giorni di Roma sia stata un’occasione sprecata. Con centinaia di studenti presenti da varie città, bisognava cogliere l’opportunità per trarre indicazioni che fossero in grado di dare una prospettiva al movimento, compiti, strategia e strumenti per mantenerlo in piedi, per alimentarlo e, se possibile, per farlo crescere ulteriormente. Rispetto a questo compito fondamentale, riteniamo che i settori che, nei fatti, hanno diretto l’assemblea nazionale non siano stati all’altezza della situazione. Vediamo perché.


Sulla questione delle modalità dello sciopero del 12 dicembre

La questione dello sciopero generale e della necessità di aprire un confronto costante con il mondo del lavoro è stato posto nei vari “workshop” (assemblee di lavoro tematiche) e rappresenta un ottimo punto di partenza, poiché pone l’accento, anche se solo embrionalmente, sul fatto che solo l’unità di classe tra studenti e lavoratori sarebbe in grado di portare avanti lotte di resistenza agli attacchi padronali e, in prospettiva, lotte di trasformazione sociale. Dopo gli anni bui di restaurazione ideologica reazionaria in salsa Fukuyama “sull’addio al proletariato” e sulla “fine della storia”, e dopo il suo contraltare ideologico “di sinistra”, nato alla fine degli Novanta all’insegna dell’“esodo” e della “moltitudine” (posizioni che, in altra forma e per altra via, postulano ugualmente la fine del proletariato, della contraddizione capitale-lavoro, dell’Imperialismo ecc.), porre questa questione ha rappresentato un momento importante di ricomposizione soggettiva del movimento studentesco, un passaggio che già aveva avuto luogo in Francia durante il movimento anti-CPE.

Nonostante l’unità di classe e, di conseguenza, l’appello unitario a scioperare siano la premessa fondamentale per la mobilitazione, la questione della loro traduzione nella costruzione di azioni di forza è altrettanto importante, a maggior ragione se si considera la natura delle direzioni dei sindacati confederali che, fino a pochi mesi fa, hanno avallato le peggiori controriforme sotto il precedente governo: dalla riforma Damiano sul Welfare al tradimento della vertenza Alitalia, mentre sono ora costrette a convocare lo sciopero generale per non essere sovrastate dalla situazione sociale generale. Tuttavia, non si è potuto discutere fino in fondo delle modalità di costruzione dello sciopero. Vediamo perché.

Perché non si è potuto discutere della strutturazione di un coordinamento nazionale?

L’assemblea nazionale non ha potuto discutere sul modo di strutturare il movimento nelle settimane successive, eppure in tanti avevano sottolineato la necessità di seguire le orme del movimento studentesco francese del 2006 che, sulla questione del CPE, era riuscito a far retrocedere il governo Chirac-Villepin-Sarkozy proprio in virtù del fatto che era riuscito a stabilizzarsi e a rafforzarsi durante quasi quattro mesi di mobilitazione. Attraverso la costruzione di un coordinamento nazionale studentesco reale e funzionante, e attraverso un collegamento e una costante unità con il mondo del lavoro, il movimento anti-CPE ha saputo durare nel tempo malgrado l’adozione della legge e la repressione (più di 4.000 arresti): per mesi, nell’ottantina di università che conta la Francia, l’unica didattica praticata è stata quella dei picchetti e delle assemblee generali che discutevano dei coordinamenti settimanali e delle modalità con le quali portare avanti le azioni di lotta.

Le due aree politiche che di fatto si sono prese l’onore (e l’onere) di dirigere l’assemblea svoltasi a Roma il 15 e il 16 novembre (ossia l’area di Uniriot/Esc – un settore dei Disobbedienti – e Sinistra Critica) hanno impedito che tale prospettiva si concretizzasse.

Innanzitutto Uniriot/Esc, facendo leva su un astratto “siamo tutti delegati”, si è rifiutata di assumere il compito di strutturare un coordinamento permanente tra gli atenei italiani. Questo rifiuto dei delegati (e del potere decisionale delle assemblee) in realtà fa il gioco di chi, dicendo di lottare contro l’università dei baroni, fa di professione il leaderino della politica studentesca, mentre, sul piano dei contenuti, vuole evitare a tutti i costi la strutturazione di un movimento studentesco saldamente unito al movimento operaio, come settore e articolazione particolare di questo; la qual cosa smentirebbe di fatto le teorie – su cui quest’area si basa – di chi da anni proclama la sparizione della “classe” in favore del “capitalismo cognitivo” e della “moltitudine”
Sinistra Critica, per non rompere il fronte che, di fatto, condivide con Uniriot/Esc, si è rifiutata di portare in assemblea, in particolare il 15 novembre, la parola d’ordine della strutturazione democratica nazionale dal basso del movimento, parola d’ordine che pure nelle settimane precedenti aveva difeso, rivendicando il “modello francese” del movimento anti-CPE (nel quale invece è stata particolarmente attiva la sua consorella, la LCR/JCR).

Questa impostazione ha di fatto gravemente condizionato la possibilità stessa di una prospettiva duratura che sapesse contrastare la tendenza al riflusso del movimento, tendenza che, almeno allo stato attuale, preme sul movimento stesso. Da parte sua, la sinistra del movimento (dal Coordinamento degli Studenti Rivoluzionari – area PCL di Ferrando – ai vari gruppi locali che hanno un forte peso nelle occupazioni a Scienze politiche a Milano, a Napoli o a Firenze) non è stata in grado di agire in quella occasione come posizione alternativa per difendere la prospettiva di un coordinamento nazionale studentesco che avrebbe potuto giocare un ruolo di enorme attrazione per i settori più avanzati della classe.

Questo limite fondamentale, che è tutto politico, ha permesso di dare un peso maggiore alla questione dell’autoriforma universitaria. Si tratta di una discussione di grande importanza nella lotta contro l’università classista al servizio del capitale e contro il discorso fintamente “riformista” della Gelmini e della Confindustria, che presentono gli studenti in lotta, nella migliore delle ipotesi, come conservatori di un ordine accademico tramontato o, nella peggiore delle ipotesi, come teppistelli da manganellare. Tuttavia questa questione, presentata nella sua versione “light” e negriana e sganciata dai passaggi politici che si pongono oggi all'ordine del giorno del movimento studentesco, oltre a essere utopica e facilmente digerita dai mass media che vogliono presentare il movimento universitario come qualcosa di profondamente “giovanile” o strettamente “studentesco”, ovviamente in chiave folkloristica, non offre lo sbocco di classe a cui tendenzialmente potrebbe portare, facendo da ponte verso quei settori ancora non mobilitati e il mondo del lavoro: l’unico modo per porre concretamente la questione è l’unità con i lavoratori; in primo luogo perché, stanti gli attuali rapporti di forza, è necessario costruire insieme ai lavoratori le condizioni per respingere al meglio l’attacco padronale a salario, scuola, sanità ecc; inoltre, la questione dell’indispensabile radicale trasformazione dell’attuale sistema educativo non può essere che parte della trasformazione dell’intera società.

Offensiva del governo, fabbriche che chiudono ma anche tanti operai in piazza. Epifani è costretto a convocare lo sciopero generale… Sarà questo “l’inverno del nostro scontento”?

Sul fronte sociale, la situazione è molto chiara nei suoi elementi-chiave ma la sua articolazione rimane molto complessa. Molto chiara nella misura in cui è ormai sotto gli occhi di qualsiasi serio analista borghese che Epifani e i suoi luogotenenti si stanno muovendo in direzione dello sciopero generale per la prima volta dal 2004, non tanto perché stizziti dagli attacchi (talvolta da veri e propri insulti) rivolti loro dal Governo o per assecondare il gioco dell’opposizione parlamentare (che, ripetiamo, è divisa sulla questione sindacale fra CISL e CGIL e fugge come la peste l’eventualità di schierarsi concretamente sulla questione sociale per non soffiare sul fuoco). La motivazione è fondamentalmente dovuta a una pressione sociale oggettiva, combinata alla radicalizzazione di alcuni conflitti che lasciano intravedere alcune potenzialità che le lotte potrebbero sviluppare nel prossimo futuro.

A questo va associato il movimento studentesco, l’Onda, che ha forzato la Direzione della CGIL a indire lo sciopero. Allo stesso tempo, questa stessa Direzione ha cercato di neutralizzare la portata dello sciopero generale procrastinandolo a metà dicembre (mentre avrebbe dovuto e tranquillamente potuto svolgersi sin da ottobre), a ridosso delle feste, per non essere costretto ad affrontare il problema di dover dar seguito all’opposizione sociale in piazza e sui luoghi di lavoro. La situazione si fa più complessa se guardiamo nello specifico le diverse categorie attualmente in lotta. Le vertenze attuali mostrano come le direzioni sindacali confederali, la CGIL in particolare, che ha operato formalmente “una svolta a sinistra”, siano costrette a promuovere mobilitazioni territoriali per opporsi ai licenziamenti (Brescia, Casale Monferrato). Al contempo, la CGIL del Pubblico Impiego chiama alla mobilitazione scaglionata regionalmente invece di organizzare un movimento unitario contro Brunetta, e fa appello allo sciopero generale nel settore dei trasporti per la terza volta in un anno (stavolta con CISL e UIL) per riaprire il giorno successivo le trattative con il padronato e le autorità. Nel caso Alitalia sta addirittura dalla parte dei crumiri e degli avvoltoi.

Ancora una volta si sostanzia l’orientamento “ambiguo” delle direzioni sindacali, che da un lato tradiscono le lotte e le seppelliscono quando è necessario e dall’altro chiamano alla mobilitazione quando, per esempio, è necessario incanalare e contenere preventivamente il malcontento diffuso.

La questione della costruzione dello sciopero dal basso, in maniera trasversale e coordinata, fra operai e studenti, immigrati, precari e disoccupati, è dunque centrale perché è l'unica condizione che renderebbe le azioni da intraprendere misure di forza realmente incisive, le più incisive possibili, e che lo sciopero sia il passaggio reale di un percorso reale.

Verso lo sciopero generale del 12 dicembre: organizziamoci dal basso e coordiniamoci per preparare al meglio lo scontro con Governo e Confindustria.

Per rompere l’attuale circolo vizioso che neutralizza anche i settori più combattivi, crediamo necessario e possibile lavorare per mettere in piedi un coordinamento nazionale di lavoratori e studenti (un coordinamento delle situazioni di lotta) basato su delegati eletti e revocabili.

Questa è secondo noi la strada da percorrere per costruire una forza reale capace di opporsi in maniera unitaria alla linea oscillante e mortifera della burocrazia sindacale e per uscire al contempo dalla logica della difesa dei propri spazi contrattuali e politici che domina l’orientamento del sindacalismo di base. Questa sarebbe la migliore garanzia per portare avanti nel miglior modo possibile la lotta contro un governo sfacciatamente reazionario e un padronato che già annuncia un milione di esuberi e di licenziamenti nei prossimi mesi. In sintesi, è il modo migliore per costruire un’opposizione di classe più ampia possibile.

Tra l’altro questa strada è l’unica in grado di non lasciare a Epifani la possibilità di rifarsi una verginità politica nei confronti di quei vasti settori del mondo del lavoro che continua a influenzare, riproponendo, in un contesto ben più cupo dal punto di vista economico, un “cofferatismo bis”, quella strategia che fra il 2001 e il 2005 è riuscita a canalizzare l’ondata di lotte per meglio svuotarle del loro contenuto vertenziale, spianando quindi la strada al governo dell’Unione ed evitando che si producesse – sulla scia delle grandi mobilitazioni sociali e politiche di quel periodo – una alternativa di classe. In questi giorni, all’interno della variegata area del “sindacalismo di base”, ci si interroga se fare lo sciopero il 12 significhi fare il gioco della CGIL. Alcuni settori hanno deciso di non farlo per questo motivo, mentre quelli che lo faranno lo faranno… senza porsi minimamente il problema che quel giorno scenderanno in piazza anche i lavoratori portati dalla CGIL; anzi, lo faranno… malgrado scenda in piazza anche la CGIL. Questo modo di pensare, che riflette un modo di essere presenti nelle mobilitazioni, crediamo sia profondamente sbagliato. Infatti, se non c’è alcun bambino da salvare (le migliaia di lavoratori che in buona fede e per effetto del malcontento diffuso scenderanno in sciopero e in piazza quel giorno) mentre si butta l’acqua sporca (la direzione politica delle lotte che, nel caso della CGIL, è funzionale al padrone), allora perché scioperare il 12 e non un altro giorno? E ancora: perché dal 17 ottobre fino alla fine di novembre nel sindacalismo di base non ci si è posti il problema di cosa fare dopo lo sciopero del 17? Delle due l’una: o si ritiene che questi mesi siano stati un fuoco di paglia (conseguenza logica: lo sciopero del 12 è per il sindacalismo di base solo uno sciopero di bandiera, cui non seguirà alcunché) oppure si è capito solo in ritardo che, oltre al problema di “non regalare gli studenti a Epifani”, ci fossero le condizioni per pensare e programmare un percorso di scioperi.

In ogni caso, scordandosi il passato, cosa farà il sindacalismo di base dopo il 12? Si attesterà sul risultato (che speriamo sia positivo) come dopo il 17 o invece, a partire da quel risultato, a partire dal malcontento diffuso, a partire dalla consapevolezza che la crisi acuirà le contraddizioni sociali già nei prossimi mesi, lavorerà per costruire quel percorso di assemblee, mobilitazioni e scioperi che avrebbe dovuto essere già avviato in vista dello sciopero del 17?

Pensare che, per evitare di fare il gioco di Epifani, basti scioperare in giorni diversi (o addirittura lo stesso giorno con un percorso diverso del corteo) è una ingenuità. Per non fare il gioco di Epifani è necessario diventare capaci di sottrarre alle direzioni sindacali la loro influenza ed egemonia sui settori di lavoratori che già si sono mobilitati o che si apprestano a mobilitarsi, anche con la CGIL. Chi dice di non voler fare il gioco della CGIL (e del centro-sinistra) non può lasciare il terreno della mobilitazione sociale alla CGIL; e non è (solo) un problema di piattaforme diverse, migliori, separate: bisogna essere in grado di guadagnare una influenza all’interno delle mobilitazioni, nelle condizioni concrete in cui si presentano, anche quando e dove le spinge la CGIL. Bisognerebbe invece partecipare ad assemblee e mobilitazioni, alle piazze e a tutto quello che si muove, portandoci dentro i propri punti di vista, le proprie critiche e i propri contenuti.

Ignorare quello che fa la CGIL, mobilitarsi parallelamente (senza che i lavoratori delle une o delle altre mobilitazioni abbiano mai la possibilità di incontrarsi) è solo un modo per attribuirsi una patente di ultrasinistra senza mettersi realmente alla prova nella mobilitazione reale e massiccia dei lavoratori, senza creare le condizioni per diventare effettivamente avanguardia interna alle lotte e contendere politicamente alla burocrazia sindacale la sua egemonia su consistenti settori della classe.

Le proposte anti-crisi della CGIL sono espressione di una politica economica basata sull’aumento del reddito e degli investimenti e in difesa dell’occupazione, da raggiungere tramite un accordo fra parti sociali; in altre parole, un accordo tra lavoratori e padronato, i cui interessi tuttavia sono del tutto inconciliabili.

Fondamentalmente si tratta di una “versione sindacale” italiana del piano difeso oltremanica da Gordon Brown. Queste proposte pretendono di dimostrare che è possibile uscire dalla crisi con una soluzione che non scontenti né padroni né operai. La CGIL traduce tutto questo nella misera rivendicazione della “detassazione” della tredicesima.

Di fronte alla crisi e alle misure anti-crisi proposte dal sindacalismo, invece, le organizzazioni operaie combattive classiste non devono e non possono accettare ulteriori tagli e ulteriori sacrifici. Devono dire che faranno di tutto per non pagare la crisi e per farla pagare ai capitalisti. Devono rivendicare, esigere e lottare per una serie di misure politiche chiare, come il ripristino della scala mobile, per fronteggiare la riduzione del potere d’acquisto e le compressioni salariali dirette e indirette, contro l’ondata di licenziamenti, per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario per lavorare tutti. Al tentativo di scaricare la prima ondata della crisi e i licenziamenti sui settori più deboli della nostra classe, quale quello degli immigrati, per i quali la perdita del posto di lavoro significa perdita del permesso di diritto al soggiorno, non basta la sospensione o l’abrogazione della Bossi-Fini ma bisogna esigere lo smantellamento dell’intero sistema di misure restrittive e razziste contro gli immigrati, varate in passato da centro-sinistra e da centro-destra, e opporre la rivendicazione del blocco delle espulsioni e la concessione automatica del permesso di soggiorno e di lavoro per chi arriva sul territorio nazionale.

Per cominciare a portare avanti questo programma d’emergenza sociale bisogna dire chiaramente che serve più di uno sciopero calato dall’alto, sia da parte del sindacalismo confederale che da quello di base che parteciperà il 12 in altre piazze. Coordinarci in assemblee continuative dal basso per discutere dell’agenda di mobilitazioni da seguire è l’unica strada precorribile per creare le condizioni politiche per uscire dal marasma attuale, senza fare il gioco del centro-sinistra.

Per far sì che il 12 dicembre sia un’ulteriore tappa sulla via di un percorso unitario, coordinato e incisivo di lotta contro il governo e il padronato

Come sottolineava Gilles Deleuze, il filosofo francese tanto amato da alcuni dei settori più negriani dell’Onda anomala studentesca, “non si ricomincia mai da capo, si ricomincia sempre dalla metà”. Ciò vuol dire, a nostro parere, che i processi dinamici come la lotta di classe ricominciano sempre partendo da un’esperienza di classe accumulata, da un livello di soggettività dato.

Al di là dell’evoluzione immediata della situazione sociale in Italia nelle prossime settimane, siamo coscienti che l’acuirsi della crisi porterà a un’esacerbazione dello scontro sia tra frazioni borghesi sia tra gli opposti fronti sociali. In questo contesto, il compito della sinistra rivoluzionaria e dei settori classisti, combattivi e antiburocratici non può che essere quello di lavorare, da qui al 12 dicembre e oltre, per offrire strumenti organizzativi e politici di lotta, autorganizzati e coordinati dal basso, strumenti in grado di difendere la soggettività e l’esperienza accumulata da parte dell’avanguardia di classe, per fare in modo che nelle prossime settimane non si ricominci da capo ma da dove si sarà stabilizzato il fronte sociale.

24 NOVEMBRE 2008

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