12.1.09

Movimento No War e No Dal Molin (05/03/08)


Vicenza 17 febbraio, Roma 9 giugno 2007, Vicenza 15 dicembre… e oggi?
Alcune considerazioni sul movimento No Dal Molin e No War

La spinosa questione di una politica estera italiana desiderosa di mostrare gli artigli ritorna ad essere al centro del dibattito politico anche in questo periodo pre-elettorale ma non per merito, purtroppo, della capacità del movimento NoWar di far sentire la propria voce. Il motivo scatenante risiede bensì nell’agenda parlamentare, la quale prevede la discussione per il rifinanziamento delle missioni militari all’estero, ultima nefandezza del governo Prodi-D’Alema-Bertinotti prima di andar via), in tutto una ventina in cui, secondo la propaganda televisiva, i bravi alpini “nostrani” farebbero da “peace keepers” e offrirebbero aiuti umanitari.
La propaganda agitata attorno ai fronti di guerra è quanto di più offensivo per l’intelligenza altrui. Sicché dopo aver assistito a servizi in cui al carabiniere che distribuiva latte in polvere si staccava sulla bara che riportava a casa il milite (perfetta sintesi della questione, non vi pare?) la diretta conseguenza è che la semplice, teorica eventualità di mettere in discussione la liceità sul solo piano del diritto internazionale delle missioni militari all’estero è diventato vilipendio alla bandiera. Il rifinanziamento ci sarà non certo per aumentare le scorte di latte in polvere ma per aumentare quelle di munizioni e mezzi blindati. Ma se è per il mantenimento della pace…
Questo meccanismo propagandistico, tanto demenziale quanto stritolante, è necessariamente alla base delle pluriennali condanne del tribunale di Firenze contro chi aveva osato opporsi all’aggressione contro la Serbia del 1999, così come dei recenti avvisi di garanzia contro gli occupanti della prefettura di Vicenza.
Dal 15 dicembre però, data dell’ultima manifestazione vicentina, il movimento No War italiano è stato incapace di prendere l’iniziativa e rilanciare un’agenda di mobilitazione contro la politica d’esportazione di morte e mantenimento dell’oppressione portata avanti dai vari governi della borghesia italiana. Il caso delle manifestazioni frantumate e ridottissime del 26 gennaio ne sono un esempio, e ciò malgrado la formazione nei mesi scorsi di un apposito cartello di organizzazioni, il cosiddetto Patto Permanente Contro la Guerra e la Precarietà, che aspira a dare maggiore organicità e un carattere nazionale ai vari movimenti antagonisti in Italia, fra cui il movimento No War.
Non mancavano certo i motivi per rilanciare le mobilitazioni, riallacciandosi a quelle svoltesi fra settembre e novembre in opposizione alla politica antioperaia, antipopolare e repressiva del governo Prodi: una Finanziaria lacrime e sangue che aumentava le spese militari, la partecipazione diretta delle truppe italiane ai combattimenti sul fronte Sud dell’Afghanistan oltre alla partecipazione all’occupazione della parte settentrionale del paese e alla conferma da parte di Napolitano e D’Alema dell’ampliamento della base USA a Vicenza. Su quest’ultimo punto, tra l’altro, i 30.000 manifestanti del 15 dicembre, anche se certamente meno numerosi di quelli che avevano sfilato un anno prima in 200.000, dimostravano che la possibilità di rilanciare un’agenda ricca di mobilitazioni c’era.
Con le elezioni anticipate e l’arrivo di un nuovo governo, qualunque sia il suo colore, non ci si può certamente aspettare nessuna flessione nella politica imperialista italiana. Men che mai potrà costituire un freno la ritrovata, ipocrita intransigenza di chi in Parlamento, in seno alla Cosa Rossa, adesso dichiara voler votare contro (o asternersi o uscire dell’Aula) le missioni mentre ha sostenuto e votato per il governo di guerra durante venti mesi di legislatura; oggi costoro provano a riaccreditarsi nel movimento, non certamente per contribuire a renderlo più incisivo ma con la prospettiva di strumentalizzarlo per darsi, a buon prezzo, una nuova verginità “pacifinta” nell’approccio alle elezioni e, come in passato, canalizzare il movimento futuro qualora fosse necessario ovvero qualora dovesse acquisire, di fronte alle probabili decisioni di un governo Berlusconi o Veltroni in politica internazionale, una rinnovata radicalità.
La questione a nostro parere centrale è quindi la seguente: COME rilanciare il movimento, come ricompattarlo, come renderlo più incisivo SENZA cadere nelle insidie di chi intende farne un impotente strumento di pressione, una valvola di sfogo o, peggio, un palco a partire dal quale servire giochi politici estranei agli interessi del movimento e della classe. Occorre riflettere non solo sulle prospettive del movimento ma anche sul bilancio che ne possiamo trarre alla luce della politica di quelle organizzazioni e correnti che, negli ultimi anni, l’hanno diretto. È un dibattito che intendiamo fare alla luce anche della sfida che ha davanti a sé il movimento vicentino. Intendiamo interrogarci e riflettere assieme a coloro che agiscono all’interno del movimento No War e No dal Molin (che ne costituisce il fronte di mobilitazione più attivo negli ultimi mesi), sulle potenzialità e l’importanza del movimento contro la guerra in Italia, ma anche sulle vie da percorrere per far sì che sia il più incisivo possibile e riesca a ostacolare veramente la politica imperialista e guerrafondaia della “nostra” borghesia, l’altra faccia della medaglia della sua politica interna. Non si tratta solo di un problema di numero, seppur abbiamo visto come si siano sgonfiate le manifestazioni No War dopo il picco del 2003 e la sconfitta dell’Iraq. Si tratta di un problema di radicamento sociale del movimento all’interno di rapporti di produzione determinati, quegli stessi su cui si basa la macchina da guerra (industria bellica, trasporti, sostegno logistico, basi militari italiane, europee e americane ecc.); si tratta, in ultima istanza, di un problema di direzione politica del movimento che gli internazionalisti dovrebbero affrontare in maniera unitaria.

Quali strumenti per contrastare la politica imperialista e guerrafondaia della borghesia italiana? Una breve riflessione sul movimento No War degli ultimi anni
Per creare un percorso di lotta nella penisola che riesca a porre le condizioni per contrastare la politica guerrafondaia degli imperialismi nel suo complesso, a cominciare da quello italiano ed europeo, che sia in grado, nel caso vicentino, di creare il rapporto di forza necessario per ostacolare il processo di allargamento della base, occorre riflettere concretamente e politicamente sull’agenda di mobilitazioni e sugli strumenti di lotta più efficaci ad essa legati.
Da questo punto di vista crediamo sia centrale trarre le corrette conclusioni sulla maniera in cui si è sviluppato il movimento No War in Italia così come sui suoi limiti, in particolare durante il suo periodo di massima espansione, per poter stabilire i paletti di quell’agenda di mobilitazioni di cui oggi abbiamo tanto bisogno.
Durante il periodo che va dalle prime minacce di aggressione contro l’Afghanistan nell’autunno 2001 fino all’invasione dell’Iraq nel 2003, l’Italia è stato uno dei paesi d’Europa che ha conosciuto le mobilitazioni più ampie e massicce di protesta contro la politica guerrafondaia delle potenze imperialiste mentre maturava nel paese una situazione di forte ostilità operaia e popolare nei confronti del secondo governo Berlusconi.[1] In un certo senso il movimento No War italiano, sia per la sua importanza numerica che per le sue caratteristiche sociali (settori di classe, per quanto controllati o scavalcati dalle diverse istanze della CGIL, sono tuttavia intervenuti come tali al suo interno) è stato uno dei più importanti e avanzati su scala continentale, paragonabile a livello europeo soltanto a quello capeggiato dalla Stop The War Coalition britannica e, in minor misura, alle importanti manifestazioni svoltesi in Grecia e in Spagna.

2001-2003: manifestazioni storiche e incapacità di ostacolare l’offensiva imperialista
Le mobilitazioni No War su scala internazionale e in particolare europea hanno permesso l’emergere di un forte movimento d’opinione che ha messo in crisi i meccanismi di legittimazione con cui si svolgevano dall’inizio degli anni Novanta le aggressioni imperialistiche (vedi guerra umanitaria, diritto d’ingerenza etc.). D’altronde, il movimento No War ha anche segnato il debutto sulla scena politica di una giovanissima generazione militante che ha cominciato ad agire nel corso di quelle mobilitazioni, dopo aver contestato, nelle fila del movimento No Global, da Seattle in poi, alcuni degli aspetti più barbarici del sistema capitalistico-imperialista, ribattezzato “globalizzazione” dai pensatori più in voga del riformismo in salsa Porto Alegre.
È certo però che quest’importante movimento non è stato in grado di ostacolare gli imperialismi nella loro determinazione a sferrare l’attacco contro l’Afghanistan e, successivamente, a invadere l’Iraq. Riflettere su questi limiti e cercare la via per risolvere questa crisi d’impotenza è l’unico mezzo per poter affrontare la sfida che abbiamo di fronte, soprattutto rispetto agli attuali e futuri scenari di guerra e di occupazione coloniale e, ovviamente, nel quadro dell’opposizione all’allargamento della base a Vicenza.
In effetti, il movimento vicentino riproduce su scala diversa il divario fra potenzialità del movimento No War e la sua incapacità a tradurre queste possibilità di contrastare concretamente l’offensiva imperialista sul terreno concreto. Il movimento No Dal Molin ha permesso l’emergere di un forte movimento d’opinione opposto all’ampliamento della base USA e il rafforzamento di una forte avanguardia giovanile, come testimonia l’importante partecipazione di giovani studenti e lavoratori nel corso delle manifestazioni nazionali. Il movimento contro la base si è trasformato al contempo in una bandiera per tutto il movimento No War nella penisola, rivitalizzandolo, e si è anche trasformato in un riferimento a livello europeo. Non è stato però in grado di scardinare la politica del governo che ha dato l’avvio, con la stretta collaborazione parlamentare della “sinistra radicale”, alla costruzione della base.

ONU, Europa “continente della democrazia assoluta”, cittadini, popolo della pace… e classe: elementi di confronto con il movimento No Dal Molin

A differenza di quello che propagandava l’ala maggioritaria del movimento altermundialista e antiguerra a livello internazionale attraverso i vari Fori Sociali Mondiali ed Europei (FSM e FSE), non era certo l’ONU o chissà quale fantomatica nuova istituzione democratica internazionale a essere in grado di contrastare l’offensiva imperialista contro l’Afghanistan; non erano nemmeno l’asse Parigi-Berlino e il veto di Chirac al Consiglio di sicurezza che avrebbero potuto fermare l’attacco anglo-americano contro l’Iraq; era ancora meno il rafforzamento di un’Europa, ontologicamente “continente della democrazia assoluta”, alternativa al vecchio “Impero” statunitense, come sostenevano Derrida, Habermas e Negri, a poter essere in grado di evitare nuovi conflitti. Al contrario, gli imperialismi europei, strutturati all’interno dell’UE con un grado d’integrazione relativo, non rappresentano nessuna alternativa all’imperialismo USA, con il quale intrattengono rapporti tendenzialmente conflittuali che attualmente si esprimono innanzitutto a livello economico e diplomatico, mentre sul fronte militare si limitano per ora a guadagnare posizioni nelle aree di investimento dei capitali europei.
Ribadiamo ancora una volta che non si trattava solo di un problema “numerico” delle mobilitazioni, poiché si è ampiamente dimostrato che, a differenza di quanto affermava Gilbert Achcar lo stesso 15 febbraio 2003, che quel giorno “Bush ha perso la guerra”, le storiche manifestazioni sui cinque continenti di metà febbraio di quell’anno non sono state in grado di fermare i preparativi di guerra. Quel tipo di affermazioni diventavano ancora più “emblematiche” alla luce di quanto teorizzavano, come Cannavò e la sua corrente, oggi Sinistra Critica, che la massima potenzialità del movimento No War fosse difendere la bandiera arcobaleno sotto l’egida dell’articolo 11 della Costituzione italiana in nome dell’unità interclassista del popolo della pace con Scalfaro e Ingrao quello stesso 15 febbraio a Roma. Una versione, alla fine dei conti, un po’ più elaborata di “Italiani brava gente”, che spiega meglio il voto di Cannavò e Turigliatto della fiducia a Prodi e delle missioni di guerra.

Yankee go home o Prodi-Berlusconi go home?
Quello che c’è in gioco a Vicenza non sono “le servitù militari” italiane. È vero che la presenza di truppe americane sul territorio italiano è il frutto della combinazione della sconfitta della borghesia italiana durante il secondo conflitto interimperialistico mondiale con il retaggio della strategia del glacis che garantiva l’ordine mondiale siglato a Yalta e Potsdam fra l’imperialismo e lo stalinismo. Oggi più che ieri però la borghesia italiana ha fatto una chiara scelta europeista di alleanze (anche se questa scelta non è esente da contraddizioni più o meno dirompenti a medio e lungo termine all’interno dell’UE) e porta avanti la sua politica in completa sovranità anche nei confronti di Washington. Questo non vuol dire che Roma sia in grado di agire in completa autonomia nei confronti degli USA o di Bruxelles. Ma il grado di contraddizioni esistenti oggi a livello interimperialistico fra Europa e USA non determina la necessità di una rottura bensì di un ridimensionamento del rapporto con gli Stati Uniti. È in questo quadro che, da un lato, l’Italia non si oppone, ad esempio, all’allargamento della base USA a Vicenza ma, dall'altro, sceglie soprattutto, in particolare nei settori più concentrati e lungimiranti della borghesia, di rafforzare le scelte europeiste di integrazione. Questo si esprime inoltre, in maniera relativamente nuova, per quello che riguarda il grado di articolazione politica delle borghesie europee nell’integrazione militare su scala continentale sia a livello d’industria bellica (vedi eurofighter, EADS, etc.) sia a livello direttamente militare (vedi Eurokorps, polizia europea, intervento in Congo, Libano, etc.).
Sbraitare “yankee go home” è del tutto fuorviante rispetto a una visione più chiara del panorama politico, all’interno del quale si svolge la partita dell’ampliamento della base nel quadro degli intrecci reali esistenti fra Roma, Washington e l’UE, da una parte, e la progettualità dell’imperialismo europeo dall’altra. Se per certi versi è comprensibile che possa rappresentare un elemento di radicalità in alcuni settori giovanili alla prima esperienza politica, l'antiamericanismo strumentalizzato da una parte consistente della sinistra italiana all’interno del movimento No War regge in ultima istanza il gioco all’europeismo (in chiave sciovinistica o negrista, poco importa), che rappresenta la copertura ideologica di sinistra del progetto imperialistico del vecchio continente, di cui i settori più concentrati della borghesia italiana sono ferventi sostenitori. Questa falsa alternativa già si poneva nella fase preparatoria dell’offensiva contro l’Iraq, quando Chirac e Schröder erano tendenzialmente visti come i paladini della pace e della vera democrazia mentre preparavano un Trattato europeo, successivamente bocciato e poi riesumato da Sarkozy (anche se formalmente ridimensionato).

Democrazia, cittadinanza e classe
Alla luce di queste considerazioni, il problema centrale dell’allargamento della base non è quello del rispetto della “democrazia”. Se Bush nel 2003 è stato in grado di sferrare unilateralmente un attacco all’Iraq, dubitiamo che agitare un’espropriazione antidemocratica del territorio vicentino possa condurre a una soluzione positiva. È altrettanto fuorviante spostare l’attenzione della battaglia No Dal Molin sull’impatto ecologico che implicherebbe l’allargamento della base sull’ecosistema vicentino. La decisione di Prodi presa con l’avallo del Parlamento non fa che dimostrare quello che la borghesia intende per “democrazia” in questo sistema e lo spazio che lascia la prospettiva di proficui profitti di capitalisti e palazzinari al dibattito sull’ecologia. Alla fine dei conti Prodi non faceva altro che applicare la ricetta del suo precedente ministro degli Interni: poco importava della democrazia e dell’ecologia all’allora ministro D’Alema quando, nel 1999, “dialogava” con la Serbia a colpi di bombe all’uranio impoverito. Anche il presidente Prodi non aveva chiesto il parere agli albanesi insorti quando ha fatto sbarcare il corpo coloniale italiano per aiutare a schiacciare la rivolta del 1997 (quella volta con il sostegno in Parlamento del PRC)…
Si ostacola la politica della borghesia lavorando per creare un rapporto di forza reale che non si gioca sul terreno dei semplici diritti democratici dei cittadini ma prevalentemente su quello della lotta di classe, stimolando la capacità dei produttori a riprendere l’iniziativa, sulla capacità dei salariati a costituirsi come classe autonoma politicamente e socialmente per dare espressione concreta alla capacità potenziale di bloccare il sistema capitalistico sul quale si basa in ultima istanza la macchina bellica e guerrafondaia. Alcuni diranno che gli scioperi promossi in Italia dal sindacalismo confederale il giorno dell’attacco all’Iraq (fra i più seguiti a livello europeo) ma anche da Unison in Gran-Bretagna, dal IGMetal tedesco, da SUD in Francia o successivamente dalle CCOO e dall’UGT in Spagna, non hanno fermato l’attacco. Nel caso italiano, gli scioperi a geometria variabile (che tenevano conto della radicalità dei diversi settori produttivi e territoriali) non erano stati ovviamente concepiti dalla burocrazia confederale come una prima tappa verso una possibile lotta prolungata contro l’offensiva bellica che si sarebbe potuta trasformare in un movimento antigovernista e che avrebbe potuto trascinare ampi settori proletari, popolari e giovanili, ma come una valvola di sfogo senza continuità per canalizzare e insterilire la pressione della base. Solo la capacità d’intervento della classe come tale sul territorio produttivo, nelle imprese, nelle fabbriche, nell’amministrazione, non solo a Vicenza e nel Veneto ma anche su scala nazionale sarebbe stata in grado di creare le condizioni di un rapporto di forza che avrebbe permesso di ostacolare concretamente l’allargamento della base e la politica estera dei governi, l’altra faccia delle manganellate antioperaie e antipopolari che piovono ogni giorno.
Da questo punto di vista, l’assenza d’appoggio anche solo formale da parte dei sindacati confederali al movimento vicentino dimostra innanzitutto il carattere profondamente pro-imperialista delle loro direzioni nazionali, agenti della borghesia all’interno della nostra classe. Non è che l’ulteriore conferma che con direzioni di questo genere è impossibile ottenere alcuna vittoria strategica anche solo sul fronte interno, a cominciare dalle più elementari come quelle le vicende contrattuali, contro la borghesia e i loro governi, qualunque sia il loro colore.
L’assenza di protagonisti centrali quali possono essere i settori di classe più avanzati all’interno del movimento vicentino dimostra d’altra parte la responsabilità delle direzioni attuali del Movimento No dal Molin (magari teorizzando che la classe non esisterebbe più o che sarebbe troppo passiva ecc.), incapaci di spendersi affinché i salariati possano organizzarsi dal basso e fare egemonia sul movimento, l’unica prospettiva decisiva per incidere sulle decisioni governative. Un’evoluzione in quella direzione del movimento vicentino scardinerebbe la logica di pressione e negoziazione con l’ala sinistra del governo (atteggiamento condiviso con tutte le direzioni attualmente maggioritarie del movimento) e sposterebbe l’asse della direzione sociale e politica del movimento verso soggetti ben diversi da quelli che finora hanno manovrato alla testa del Presidio permanente.
D’altra parte, sarebbe auspicabile che le direzioni del movimento sindacale che si sono schierate contro l’allargamento della base, a cominciare da RdB-CUB e dalla CGIL di Vicenza, ma anche ovviamente tutto il sindacalismo di base e le tendenze sindacali che hanno affermato nel corso degli ultimi mesi di non avere governi amici, proponessero un percorso di lotta che esca della logica della pressione cittadina delle azioni mediatiche. Se fossero veramente conseguenti con le loro dichiarazioni, dovrebbero porsi alla testa di un movimento nazionale che esiga e porti avanti un’agenda di mobilitazioni nelle fabbriche come nei servizi, che miri a opporsi all’allargamento della base, una battaglia che non mancherebbe di saldarsi all’opposizione agli attacchi antioperai che ci hanno colpito e continueranno a piovere sotto la prossima legislatura. Sarebbe compito di tutte quelle correnti politiche che sostengono il movimento vicentino di combattere all’interno delle strutture in cui militano i loro attivisti per esigere in assemblee mozioni ed azioni concrete che vadano in quella direzione, lavorando a coordinarle trasversalmente al di là delle differenze d’appartenenza sindacale[2].
Come sottolineavamo all’inizio, il movimento vicentino ha contribuito senza dubbio a rivitalizzare il movimento No War della penisola e ha incarnato durante alcuni mesi, almeno fino a settembre, uno dei fenomeni antigovernisti più importanti, malgrado i limiti politici imposti dalla direzione al movimento in sé. Ci si trova adesso, dopo le iniziative portate avanti a metà dicembre e l’importante manifestazione del 15 febbraio, di fronte all’argomento nodale: come creare le condizioni per accrescere le possibilità di vittoria contro una decisione ormai presa dal governo e ribadita successivamente da D’Alema e Napolitano a Washington di avviare il processo d’ampliamento della base. Lo sforzo deve essere proteso a dare tutto un altro contenuto di classe, l’unica maniera per superare le insidie collaborazionistiche più o meno aperte di cui si fanno portavoce le principali direzioni attuali del movimento, e quelle di chi nei prossimi mesi, dopo aver votato in Parlamento per l’allargamento della base, proverà a riprendere piede nel movimento.

Quali prospettive per il movimento?
Queste riflessioni ci portano a fare alcune ulteriori considerazioni sulle sue prospettive future del movimento. Innanzitutto non possiamo che constatare che, in termini di agenda di mobilitazione, siamo passati, nell’arco degli ultimi mesi, da un 9 giugno partecipassimo a Roma contro Bush e Prodi a uno sciopero intercategoriale del sindacalismo di base del 9 novembre, con manifestazioni atomizzate in più di 20 città, e a una giornata come quella del 26 gennaio, con iniziative frantumate sul territorio e una scarsa partecipazione. Tutto questo è in gran parte dovuto all’assenza di volontà di trasformare questi appuntamenti in occasioni nazionali di lotta contro la politica imperialista e antioperaia del governo Prodi-D’Alema-Bertinotti. Quanto questo atteggiamento abbia inciso negativamente sul movimento lo dimostra il fatto che è saltato l'appuntamento successivo, quello dell'assemblea di Firenze fissata per il 1° marzo. Per quanto non coincidesse con una manifestazione nazionale l'assemblea sarebbe stata occasione di riflessione sull’andamento attuale del movimento No War e di ricompattamento delle forze, attraverso la pianificazione di un’agenda di mobilitazioni, per poter affrontare gli attacchi che il prossimo governo non mancherà di sferrare sul fronte esterno. L’assemblea di Firenze sarebbe potuta diventare l’occasione per esprimere una chiara opposizione alla politica estera della borghesia italiana, qualunque sia il colore del governo, e per ricostruire un ampio movimento per il ritiro delle truppe da tutti i teatri di guerra e contro le basi. È urgente e necessario che questa battaglia si saldi a quella contro l’offensiva interna che si è accelerata negli ultimi mesi con il Protocollo sul Welfare, con il Pacchetto sicurezza anti-immigrati e con la Finanziaria 2008; un’offensiva che non si fermerà sotto il prossimo governo, sia esso guidato da Berlusconi o capeggiato da Veltroni, con l’appoggio o senza il sostegno della “Cosa Rossa”.
Venuto meno l'appuntamento di Firenze, è ancor più necessario riflettere se le direzioni promotrici dell’appello, quelle del Patto Permanente contro la Guerra e la Precarietà, avessero concepito l'assemblea come la tappa di un’agenda sociale che andasse nella direzione di un rafforzamento dell’intervento di classe su questioni di politica interna ed esterna o soltanto come una delle tante tappe di un percorso mediatico, che avrebbe potuto significare per alcune delle sigle politico-sindacali presenti all’interno del Patto occupare lo spazio che esiste a sinistra della “Cosa Rossa” o del sindacalismo confederale, sia per stretti interessi di bottega sia in vista delle elezioni di aprile e, in qualche caso, per tutte e due le ragioni. Siamo in tanti a credere in questo senso che, per assicurare un futuro al movimento, tanto l’appello quanto le modalità delle auspicabili, prossime mobilitazioni guadagnerebbero a essere chiarite il più possibile politicamente. Non farlo significherebbe non trarre tutte le potenzialità della situazione attuale e favorire le condizioni per le quali le direzioni della “Cosa Rossa”, dopo aver votato per le bombe e le portaerei di Prodi, D’Alema e Bertinotti, riprendano piede nel movimento No War, finendo di sfasciarlo del tutto e sfruttando la possibilità di rifarsi una verginità politica.[3]
Dovrebbe essere chiaro a tutte le organizzazioni che chiamano a partecipare alla manifestazione che la mobilitazione deve schierarsi effettivamente con la massima unità contro tutte le occupazioni militari e le basi (siano USA, Nato, sotto comando europeo o solo italiano). Andrebbe anche chiarito che una lotta conseguente non può che rivolgersi innanzitutto contro chi in Italia è responsabile della guerra, cioè il precedente governo Prodi-D’Alema-Bertinotti e chiunque l'abbia sostenuto durante i venti mesi, cioè tutte le forze che hanno appoggiato il centrosinistra in parlamento e nei vari consigli provinciali, regionali e comunali.
In questo senso è compito di tutte quelle forze politiche e sindacali, collettivi e gruppi che si sono schierati negli ultimi mesi contro la politica estera e interna del governo, a cominciare dal 9 giugno scorso e negli ultimi mesi sulla questione della lotta contro il Protocollo Damiano, lavorare all’interno delle future mobilitazioni sulla questione No War alla ricostruzione della centralità della classe nella lotta contro l’offensiva attuale portata avanti dalla borghesia. Come dicevamo, non si poteva e non si può pensare di esigere il ritiro delle truppe e schierarsi contro le basi di morte senza opporsi all’agente diretto di queste occupazioni, il governo della borghesia imperialista italiana. Non si può neanche concepire coerentemente il movimento No War come uno dei fronti di mobilitazione sociale, poiché la lotta contro la politica esterna della borghesia non è nient’altro che l’altra faccia della lotta contro la sua politica interna. Non è un caso se chi intende contrastare solo alcune delle occupazioni militari, facendo ambigue distinzioni fra peacekeaping e occupazione Nato, si ritrovava poi a voler cercare nella politica del governo Prodi un margine di manovra per esercitare pressioni a sinistra o, nel peggiore dei casi, quando dispone di parlamentari, non si ritrova sistematicamente all’opposizione.

Per un intervento internazionalista conseguente e unitario della sinistra antagonista, schieratosi a favore della sconfitta dell’imperialismo italiano
Su questa base pensiamo che, attraverso la costruzione di un fronte unico di lotta di tutte le organizzazioni politico-sindacali che fanno parte del movimento No War, la sinistra antagonista internazionalista avrebbe la possibilità politica (oltre al dovere militante) di intervenire in maniera unitaria in chiave coerentemente anti-imperalista. Il compito internazionalista che dovrebbe porsi la sinistra antagonista in Italia e che dovrebbe cercare di fare avanzare all’interno dei grandi settori del proletariato, a cominciare dall’avanguardia di classe, non è semplicemente la lotta contro la guerra ma innanzitutto la lotta per la sconfitta dell’imperialismo italiano nei teatri di guerra e di occupazione nei quali è impegnato.
Questa battaglia faceva parte del patrimonio politico del proletariato rivoluzionario prima che venticinque anni di sconfitte e ritirate e, soprattutto, che il deleterio lavoro portato avanti dalle diverse varianti della socialdemocrazia e dello stalinismo all’interno del movimento operaio lo rimuovessero del tutto. Non si tratta di un imperativo morale ma di una necessità politica per chi intende combattere su un terreno di classe. Anche se oggi, per la debolezza oggettiva della sinistra antagonista, sarebbe difficile portare avanti questa campagna sul terreno della produzione, del complesso militare-industriale, attraverso azioni di forza collettive di classe, sarebbe già una prima tappa porre l’urgenza di questa battaglia fra chi intende intervenire su una base conseguentemente internazionalista all’interno della classe.
Portare avanti un’opposizione intransigente alla politica estera del governo e provare a contrastarla implica schierarsi a fianco dei popoli oppressi dei paesi periferici dominati economicamente o, in alcuni casi, occupati militarmente dall’imperialismo, dall’imperialismo italiano in primis. Nel caso dei fronti d’occupazione o d’intervento militare, ciò vuol dire appoggiare le resistenze, indipendentemente dal carattere delle loro direzioni, ed esigere il ritiro delle truppe per favorirne la sconfitta. È ovvio che consideriamo “forze di resistenza” quelle che hanno come obiettivo la guerra alle forze d’occupazione e ai loro agenti locali e che non alimentano invece il circolo vizioso dello scontro etnico-religioso che, in ultima istanza, fa buon gioco proprio all'invasore.
L’anti-imperialismo declinato su questo terreno non è una posizione ideologica ma politica, poiché ogni sconfitta (anche solo parziale) a livello economico o militare per l’imperialismo italiano non può che ripercuotersi positivamente sul quadro oggettivo della lotta di classe interna, anche se dipende in ultima istanza dalla classe approfittare dell’indebolimento della propria borghesia sul piano internazionale. Viceversa, ogni avanzamento dell’imperialismo in generale, e di quello italiano in particolare, comporta un peggioramento del quadro complessivo per chi vuole opporsi ai nemici di classe, poiché le crociate della borghesia nella periferia capitalistica per saccheggiare e assicurarsi una parte del bottino è anche una guerra interna portata avanti attraverso una maggiore pressione sulle condizioni di vita e di lavoro della nostra classe, con misure liberticide e campagne scioviniste.
A chi, nei ranghi della sinistra di classe, si rifiuta di porsi su questo terreno va detto che la lotta all’imperialismo di casa propria e l'appoggio alle resistenze non vuol dire in alcun modo schierarsi con alcun imperialismo alternativo né dare alcun sostegno politico alle direzioni nazionaliste borghesi, laiche e non, che nei paesi dominati e controllati si scontrano anche solo parzialmente sul piano diplomatico, economico e militare con l’imperialismo italiano. Una posizione di classe, internazionalista conseguente, si esprime infatti attraverso l'obiettivo di rafforzare in loco le forze rivoluzionarie, cioè antimperialiste e anti-borghesi. Una chiara opposizione di classe rende evidente che nelle metropoli imperialiste esistono “due nazioni”, la borghesia oppressiva e un proletariato disposto a lottare contro di essa, oggettivamente alleato dei popoli oppressi: solo a queste condizioni è possibile appoggiare concretamente i comunisti rivoluzionari ad estendere la loro azione, ad allargare la loro influenza e ad arginare tra ranghi della classi subalterne dei paesi semi-coloniali la nefasta influenza delle direzioni nazionaliste borghesi e riformiste, religiose o laiche. A livello interno, questa battaglia è fondamentale anche per guadagnare alle lotte del proletariato italiano i milioni di lavoratori immigrati originari delle semi-colonie, in molti casi provenienti dell’area arabo-musulmana, che subiscono una doppia oppressione, come lavoratori e come stranieri, e che giocheranno un ruolo centrale in qualsiasi movimento generalizzato della nostra classe contro la borghesia.
La rinuncia a questa battaglia implicherebbe da parte del proletariato la rinuncia ad opporsi alla politica complessiva antioperaia e antipopolare del governo e, in ultima analisi, la rinuncia al suo compito storico di porsi come unico soggetto rivoluzionario di trasformazione sociale.
Pensiamo, come tanti altri compagni, che ci sia la possibilità e la necessità di lavorare in questo senso nella maniera più unitaria possibile, rompendo con la logica dei gruppetti e degli spazi da occupare.[4] Dall’esito di tale lavoro unitario dipende il consolidamento di una soggettività rivoluzionaria all’interno del movimento No War che sia in grado di contrastare le insidie di chi in passato ha voluto depotenziarlo o, nel peggiore dei casi, portalo sul terreno dell’europeismo o dello sciovinismo di sinistra. Questo passaggio è sostanziale per chiunque si ponga sul terreno della lotta di classe, troppo spesso in maniera frantumata e atomizzata, con l'obiettivo non solo di rafforzare il movimento No War ma anche di dare una risposta adeguata alla politica sempre più aggressiva della borghesia italiana sia sul fronte interno sia su quello esterno.

Roma, 5 marzo 2008

[1] Questa opposizione diffusa, che sarebbe stata in gran parte canalizzata dalla direzione cofferatiana della CGIL, si esprimeva soprattutto attraverso i 6 scioperi generali e il forte movimento in difesa dell’articolo 18 ma aveva anche altre forme d’espressione, molto più radicali che rompevano lo stretto controllo della direzione maggioritaria cigiellina come testimoniano ad esempio alcuni movimenti categoriali molto duri come quello degli autoferrontranvieri nell’inverno 2003-2004 o di Melfi nella primavera dello stesso anno.
[2]Un coordinamento nazionale democratico basato su attivisti e delegati di realtà combattive, sostenuto da chi, a cominciare dal sindacalismo di base e la CUB vicentina, si è sempre schierato contro la guerra, sarebbe in grado di discutere della migliore agenda possibile per costruire un movimento di classe che miri a contrastare la politica estera del prossimo governo e prenda di mira specificamente la costruzione della base. Tale agenda potrebbe prevedere scioperi parziali, a rotazione, combinati con azioni concrete sul territorio per coinvolgere altri settori, boicottaggio attivo e azioni dirette di massa in vista della costruzione di un movimento di sciopero di più ampio respiro.
[3]È quello che è avvenuto a partire dal 1999, quando il PRC, una volta lasciato Prodi dopo aver votato pachetto Treu, Finanziaria del 1997 e intervento coloniale in Albania, comincia a cavalcare l’onda delle mobilitazioni No War contro l’agressione della Nato alla Serbia. Sarà il palco a partire dal quale PRC, neo-autonomismo e Social Forum cominceranno a cavalcare movimenti di protesta, No Global e poi No War, finendo per essere ripagati per i loro servizi come sappiamo all’interno dell’ultimo governo Prodi.
[4]Questo potrebbe passare attraverso interventi politici comuni in assemblee, comitati, ma anche attraverso la costruzione di spezzoni unitari all’interno delle manifestazioni No War, che pongano al centro delle rivendicazioni la lotta per il ritiro di tutte le forze d’occupazione italiane sia dai teatri di guerra sia da quelli di cosiddetto “peacekeeping”, l’opposizione ai governi della borghesia e, infine, lo schierarsi per la sconfitta militare delle truppe imperialiste, italiane in primis, negli attuali teatri di guerra.

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