12.1.09

Un Afro-americano a capo della più grande potenza imperialista (05/11/08)


Un Afro-americano a capo della più grande potenza imperialista

La crisi e le guerre che hanno portato Obama alla Casa Bianca*


L’articolo che segue, scritto da una compagna dello FTQI , decidiamo di pubblicarlo perché, sebbene non rifletta una posizione condivisa su alcune delle questioni che affronta, ha comunque stimolato il confronto interno soprattutto sui passaggi che coinvolgono più direttamente l'attuale fase della crisi capitalistica e le sue ripercussioni sulla politica degli Stati e l'escalation militare. I successivi sviluppi e approfondimenti di questo confronto ci ripromettiamo di testimoniare a partire dai prossimi numeri di questo giornale.

Il 4 novembre Barack Obama è stato eletto Presidente degli Stati Uniti, con quello che comporta essere il primo Afro Americano a riuscirci. Il candidato Democratico ha ottenuto una larga vittoria (più ampia nella differenza degli elettori che nel voto popolare) sulla accoppiata Repubblicana McCain-Palin. Il suo partito ha ottenuto la maggioranza nelle due Aule del Congresso, ottenendo il miglior risultato elettorale dall’elezione di Lyndon Johnson nel 1964.

La campagna elettorale di Obama, basata su una vaga promessa di “cambiamento”, è riuscita ad entusiasmare milioni di giovani e di lavoratori con la speranza che la sua amministrazione comporti realmente un mutamento rispetto a quella di George Bush e un’inversione rispetto alla rivoluzione conservatrice degli ultimi decenni. Queste aspettative travalicano i confini statunitensi ed a livello internazionale in milioni hanno l’illusione che, sotto l’amministrazione Obama, la principale potenza imperialista attuerà una politica più “benevola” verso il resto del mondo.

Inoltre, la vittoria di Obama non è dovuta alle sue “qualità personali” o della sua “abilità di oratore”, e non è nemmeno la vittoria dell’“uguaglianza delle opportunità” o della fine del razzismo, come molta stampa liberal afferma. Piuttosto è il risultato di una situazione disastrosa nella quale si combinano il baratro di due guerre che non si possono vincere e che non sono finite, in Iraq e Afghanistan, insieme alla peggiore crisi da quella della Grande Depressione del 1930. In questo senso riporta alla memoria, con tutte le differenze del caso, il trionfo del democratico Franklin Delano Roosevelt sul rivale repubblicano Herbert Hoover alla fine del 1932, in piena crisi economica.
Obama entra in carica in un momento molto delicato per l’imperialismo statunitense. Sin dall’inizio, la sua presidenza sarà soggetta alla pressione della crisi economica. Questa si sta già manifestando come crisi sociale, con migliaia di posti di lavoro persi, con un numero crescente di famiglie che hanno perso la loro abitazione e, infine, con la sfida all’autorità statunitense nel mondo. Senza andare troppo lontani, Wall Street ha accolto la vittoria di Obama con una perdita del 5% dell’indice Dow Jones, lo stesso hanno fatto il NASDAQ e Standard and Poor’s, mostrando che quello che prevale è la crisi e la recessione piuttosto che il supposto entusiasmo per il “cambiamento”. Come alcuni analisti hanno dichiarato la vera notizia del giorno non è la sua vittoria ma la sempre più evidente conferma dell’“atterraggio forzato” dell’economia cinese, l’altro pilastro insieme al sovraconsumo nordamericano del ciclo di crescita dell’economia mondiale degli ultimi anni, che sta arrivando violentemente al suo termine.

Tra l’illusione delle masse e l’interesse dell’establishment

La vittoria di Obama rappresenta un importante cambiamento culturale e ha un forte impatto simbolico per la minoranza afroamericana e altre minoranze oppresse come i latini (che per più del 70% hanno votato per il candidato democratico), in un paese che non solo fondò originariamente la sua “grandezza” sulla schiavitù dei neri ma nel quale la discriminazione razziale fu legale in molti Stati fino a poco meno di 45 anni fa, quando si votò la Legge sui Diritti Civili, e nel quale il razzismo continua ad essere molto forte in molti settori.

Il voto massiccio per il Partito Democratico esprime in maniera distorta il rifiuto popolare delle politiche dell’era Bush, identificate con il disastro della guerra in Iraq ed un’aggressiva politica imperialista, con l’arricchimento dei banchieri, degli imprenditori e delle élite degli amministratori delle multinazionali, con il taglio delle imposte ai ricchi, in sintesi con un enorme trasferimento di risorse verso l’1% più ricco del paese. Tuttavia, il fattore determinante è stato l’esplosione della crisi finanziaria ed economica mondiale di settembre (il cosiddetto “settembre nero”), quando il suo atteggiamento responsabile contrastò con l’autismo del candidato repubblicano che negava l’esistenza stessa della crisi. Senza la crisi economica in corso probabilmente il trionfo di Obama, tenendo conto anche del disastro di Bush, forse sarebbe stato impensabile.
Anche se nel momento in cui andiamo in stampa non sono ancora disponibili le composizioni della base elettorale di ciascun partito, la distribuzione territoriale del voto mostra come il Partito Repubblicano, sebbene attraversi una crisi molto importante e una forte divisione interna che pone un cono d’ombra sopra una delle due gambe del sistema bipartitico, mantiene la sua base tradizionale negli stati del cosiddetto Profondo Sud, come l’Arizona e il Texas, negli stati rurali del centro del paese (anche se ha perso Stati chiave come Florida, Virginia, Iowa, Colorado tra quelli che erano stati vinti da Bush nel 2004). Nonostante il forte ripudio e la bassissima popolarità del governo Bush, il Partito Repubblicano ha mantenuto una significativa percentuale elettorale, rendendo chiaro nella sua campagna che esiste una destra forte nel Paese. Da parte sua, il Partito Democratico ha dominato nella costa del Pacifico, a Est e negli stati industriali, come l’Ohio, il che indica come importanti settori della classe lavoratrice, specialmente quelli iscritti ai sindacati, hanno votato per Obama.

Le aspettative popolari di “cambiamento” nel concreto significano misure per proteggere i posti di lavoro, aiuti per coloro che rischiano di perdere l’abitazione, un servizio sanitario che assicuri la copertura anche ai 43 milioni di nordamericani che attualmente non ne usufruiscono, la regolarizzazione degli immigrati, politiche contro il razzismo, aumento delle tasse per i ricchi, la fine della guerra in Iraq e un cambiamento radicale rispetto alle politiche unilaterali e militariste dell’amministrazione neoconservatrice.

Dopo il trionfo di Obama non ci sono solamente le aspettative di giovani, lavoratori, neri e latini, ma soprattutto la decisione dell’establishment della classe dominante che di fronte alla crisi e al disastro del Partito Repubblicano, da tempo ha scelto Obama come il candidato migliore per ricomporre la situazione degli Stati Uniti nel mondo e per combattere il malcontento sociale che potrebbe esplodere con l’aggravarsi della crisi e della recessione economica. Per questo le principali società di Wall Street hanno finanziato la sua campagna elettorale e tra i suoi consiglieri si trovino i più esperti politici imperialisti, per esempio Brzezinski, ideatore del supporto ai mujaheddin contro l’Unione Sovietica in Afghanistan, l’ex-Segretario di Stato di Bush, Colin Powell, che iniziò la guerra contro l’Iraq, Paul Volcker capo della Federal Reserve nel 1979, quando diede il via all’offensiva neoliberista con l’aumento dei tassi di interesse, causando una profonda recessione, e l’ex-Segretario del Tesoro di Clinton, Robert Rubin. Uno dei principali consiglieri economici di Obama è Warren Buffett, l’uomo più ricco del mondo.
Prima di insediarsi, Obama ha indicato che difenderà gli interessi della classe capitalista. Ha votato ed ha fatto azioni di lobby per il piano di garanzia di Paulson ovvero per salvare i banchieri con 700.000 milioni di dollari di denaro statale. Anche il voto democratico è stato decisivo per la sua approvazione nel Congresso contro l’opposizione della maggioranza del Partito Repubblicano al piano del suo stesso governo. Questa cifra milionaria contrasta con i 50.000 milioni che ha promesso in campana elettorale per le spese destinate alle opere pubbliche e per le spese sociali, e gli appena 10.000 milioni per coloro che hanno debiti ipotecari.
Il fatto è che, al di là dell’essere afroamericano, Obama appartiene all’elite politica che con l’alternanza di potere dei suoi due principali partiti, Repubblicano e Democratico, governa per la borghesia imperialista.

Obama e la crisi dell’egemonia degli Stati Uniti

Sul piano internazionale Obama dovrà combattere con la pesante eredità dell’amministrazione Bush e della sua “guerra preventiva” che ha portato al disastro in Iraq ed Afghanistan, due guerre che gli Stati Uniti non sono riusciti a vincere. Questo errore strategico dei neoconservatori che hanno tentato di approfittare degli attentati dell’11 settembre del 2001 per rafforzare il dominio statunitense con una politica imperialista aggressiva, facendo appello alla supremazia militare e all’unilateralismo, ha indebolito qualitativamente la posizione degli Stati Uniti. Ha dato inoltre luogo a un antiamericanismo senza precedenti principalmente in Medio Oriente, America Latina e in gran misura nella vecchia Europa ed ha facilitato l’emergere di nuovi attori politici sulla scena internazionale.

Questa situazione di debolezza è apparsa evidente durante la guerra tra Russia e Georgia, un alleato degli Stati Uniti, nella quale Bush non è riuscito a guadagnare le potenze europee alla sua linea politica. Specialmente la Germania ha privilegiato i suoi interessi nelle relazioni con la Russia, lo stesso ha fatto la Francia nonostante il filo-americanismo del suo presidente Sarkozy. Lontani dalle illusioni degli attivisti e del movimento contro la guerra, la politica estera che Obama ha pianificato nella campagna elettorale è centrata specialmente sul ritiro graduale delle truppe dall’Iraq per concentrare il potere militare in Afghanistan, dove i Talebani hanno riguadagnato terreno e il conflitto si è esteso al Pakistan, cercando di ottenere lì un trionfo imperialista.

A differenza della dura posizione di John McCain , di sostanziale continuità con la politica di Bush, Obama si è dichiarato favorevole a un dialogo “senza condizionamenti” con l’Iran per tentare di ottenere per via diplomatica che un’ala del governo sia favorevole agli interessi nordamericani. Anche se non è chiaro quale asso nella manica abbia per tentare gli iraniani, questa politica contraddice il mantenimento dell’alleanza incondizionata con Israele, che spinge per una linea più aggressiva contro il regime iraniano. Se non dovesse raggiungere un accordo con il regime degli ayatollah, la sua promessa di ritiro di truppe dall’Iraq potrebbe rimanere sospesa di fronte al vuoto che provocherebbe nella regione il ritiro delle truppe senza un chiaro accordo.
Infine, il neoeletto presidente si è espresso per un approccio più multilaterale che consenta la collaborazione con altre potenze, cercando fondamentalmente la cooperazione europea nella guerra in Afghanistan. Questione che non suscita molto favore nei governi europei nonostante il loro ingenuo entusiasmo verso il nuovo presidente eletto.

Qualunque sia l’orientamento politico che sta definendo, la complessa situazione verificherà presto la praticabilità della sua politica. La profonda crisi economica, combinata con i fallimenti militari, sta seriamente mettendo in discussione le basi del potere statunitense. Anche se non c’è una forza in grado di contendere l’egemonia agli Stati Uniti, importanti potenze regionali come la Russia o la Cina o anche i loro principali alleati, come le potenze europee, potrebbero certamente mettere in discussione i termini dell’autorità statunitense. Forse un anticipo di quello che avverrà è la freddezza con la quale il governo russo di Medveded ha accolto il trionfo di Obama, confermando la sua intenzione di posizionare missili di corto raggio sulla frontiera occidentale russa se gli Usa andranno avanti con il loro piano di installare un sistema di missili nell’Europa orientale.
In questo scenario, nel quale per la prima volta dal 1973 il mondo marcia unito verso la recessione, la cosa più probabile è una recrudescenza della concorrenza tra le compagnie capitaliste e i loro Stati, il che faciliterà lo sviluppo di conflitti regionali e aprirà un periodo di grande instabilità e tensioni tra Stati a livello internazionale.


Le prospettive dopo la vittoria di Obama


Nelle prossime settimane si vedrà quali tendenze esprimerà la composizione del gabinetto di Obama, che finora si è circondato di figure-chiave del governo di Clinton. La transizione, dall’elezione sino alla Presidenza del 20 gennaio 2009 (in realtà questo processo può durare più del periodo previsto a causa delle procedure di approvazione parlamentare di tutti i candidati), potrebbe essere una fase di grande instabilità politica, sia negli Usa sia a livello internazionale, con sfide inaspettate che metteranno alla prova il nuovo Presidente.
Ma la grande sfida per il suo stesso governo potrebbe, in questo caso, provenire dagli stessi Stati Uniti, ed è dovuta all’enormità e alla gravità della monumentale crisi economica. Presto le aspettative dei lavoratori, delle minoranze di neri e latini e dei milioni che vedono minacciata la propria sussistenza dalla crisi, entreranno in conflitto con la realtà. L’amministrazione Obama non difenderà i loro interessi ma quelli delle grandi aziende e banche imperialiste.
La maggioranza dei settori “progressisti”, che con più o meno entusiasmo hanno spinto a votare per Obama, hanno giustificato la loro posizione dicendo che il suo governo sarà più facilmente soggetto alla pressione delle lotte dei lavoratori. Roosevelt negli anni ’30, Kennedy negli anni ’60 e Obama nel 2009 confermano una volta ancora che, al di là della retorica “liberal” (o di sinistra) o delle politiche “populiste” come il New Deal, il Partito Democratico, come il Partito Repubblicano, difende gli interessi della borghesia imperialista. Basta ricordare che durante la presidenza Kennedy gli Usa hanno invaso Cuba, che il democratico Johnson iniziò la guerra in Vietnam e che proprio Roosevelt, quando la sua politica del New Deal si rivelò incapace di rivitalizzare l’economia nordamericana e si produsse una nuova crisi nel 1937, trasformò il “New Deal” nel “War Deal”. Cambiò l’orientamento economico in vista dei preparativi bellici del 1938 per contendere l’egemonia mondiale alla Germania nazista e alla Gran Bretagna. Fu questa “industria della guerra” quella che effettivamente ha permesso il recuperò dell’economia ed ha consentito agli Stati Uniti di entrare in guerra e a uscirne come unica potenza egemonica nel 1945, anche se a livello mondiale ha diviso il dominio del mondo con l’Unione Sovietica. Affermiamo questo, anche se rimane da vedere se Obama farà un grande cambiamento di direzione in politica economica nel quadro della difesa degli interessi del regime borghese imperialista. Non possiamo neanche escludere una drastica scelta protezionista, come lascia presupporre una certa retorica elettoralistica dell’ex-candidato e la maggioranza democratica nelle due camere del Congresso.
Storicamente la strategia del male minore ha giocato a favore del fatto che il Partito Democratico agisca come contenitore dei settori medi e progressisti e delle tendenze alla radicalizzione dell’avanguardia operaia, come è successo negli anni ’30 con la cooptazione da parte di Roosvelt del sindacalismo combattivo del CIO o alla fine degli anni ’60 con il movimento contro la guerra in Vietnam. Questo è stato un grande ostacolo per l’indipendenza politica dei lavoratori, che in maggioranza votano per il Partito Democratico.

La profondità della crisi economica e il nuovo periodo storico che si apre probabilmente accelereranno l’esperienza con il governo di Obama. Illusioni o aspettative frustrate possono tradursi in lotta di classe e nell’emergere di nuovi fenomeni politici, come è accaduto negli anni ’30 con l’ascesa del CIO (prima, “Comitato per l’Organizzazione Industriale” e a partire dal 1937 Congresso dell’Organizzazione Industriale) che in pochi mesi il CIO attirasse nelle sue file migliaia di lavoratori non qualificati che erano respinti dalla burocrazia sindacale dell’AFL (Federazione Americana del Lavoro). Questo fenomeno di attivismo operaio era parte di un moltiplicarsi di scioperi combattivi dei lavoratori occupati e disoccupati, come quelli degli operai della Toledo o dei Teamster di Minneapolis.

È vero che la storia non torna a ripetersi, è anche vero che siamo in una crisi di una grandezza storica simile a quella che diede luogo ai processi più acuti di radicalizzazione della classe operaia nordamericana. Nel prossimo periodo si aprirà la possibilità che la classe operaia, che fu duramente colpita dalla presidenza Reagan, e che ha sofferto dure sconfitte negli ultimi 30 anni di offensive neoliberali, nella quale la sua rappresentanza sindacale si è ridotta a solo il 12% della forza lavoro, recuperi la sua organizzazione e che si apra la possibilità che i lavoratori nordamericani e le minoranze oppresse rompano con i partiti dei propri sfruttatori.
di Claudia Cinatti
(5 novembre 2008)

* Articolo tradotto da “Estados Unidos. La crisis y las guerras llevaron al triunfo electoral de Obama”, pubblicato su La Verdad Obrera n°302, settimanale del Partido de los Trabajadores por el Socialismo dell’Argentina (www.pts.org.ar) e sulla pagina web della Frazione Trotzkista per la Quarta Internazionale (www.ft-ci.org) di cui fa parte il PTS.

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