31.1.09

Pacchetto sicurezza (30/01/09)


Riportiamo il volantino distribuito alla manifestazione contro il Pacchetto sicurezza dello scorso 31 gennaio a Roma.

PACCHETTO SICUREZZA?
LOTTIAMO INSIEME CONTRO LA CRIMINALITA' DEI PADRONI!


Da lungo tempo un pesantissimo clima di repressione giudiziaria e poliziesca grava sulle lotte dei lavoratori e, in generale, su ogni lotta sociale. Come è ovvio, questo clima vede moltiplicarsi all'ennesima potenza i ”normali” episodi di impunità delle forze di polizia e delle aggressioni razziste. Si colpiscono alla luce del sole gli immigrati (i vigili urbani di Parma, di Roma, ecc. che mandano all’ospedale ragazzi che hanno l’unica colpa di essere “neri”) e i singoli (vedi il recente caso di Sandri); si colpiscono manifestanti e scioperanti, fioccano gli avvisi di garanzia e i rinvii a giudizio anche per le manifestazioni più innocue, anche per quelle di carattere sindacale e “sociale”. Il tutto mentre si riconsegnano le pistole ai vigili urbani (che hanno già ampiamente dimostrato contro quali soggetti usano la forza), si aumentano i poteri alle polizie locali e ai sindaci-sceriffi, si parla di appaltare le carceri ai privati, si ventilano 30 mila soldati in più nelle strade (sigh!), per non dire della spinta a limitare ulteriormente il diritto di sciopero ― con norme che ne stravolgono il contenuto ― e le libertà sindacali.

A questo inasprirsi della repressione si accompagnano le ultra-virulente campagne di criminalizzazione dispiegate contro i lavoratori (Brunetta e gli statali, i pensionati presentati come “privilegiati”, gli scioperi Alitalia o in ferrovia visti come “attacchi corporativi ai diritti dei cittadini”, ecc.) e, in special modo, contro i settori sociali più deboli: le campagne razziste che hanno di volta in volta additato gli albanesi, gli zingari, i rumeni, gli islamici come "il nemico". I lavoratori immigrati vanno bene due volte: per farsi sfruttare e creare ricchezza per il padrone (ancor meglio se soggetti al ricatto della clandestinità) e come capri espiatori per scaricare le tensioni sociali verso falsi bersagli.

In questo quadro si colloca quell’insieme di norme noto come “pacchetto sicurezza” (vedi riquadro) che ― come rilevato da esponenti della maggioranza in polemica con l'opposizione ― non è altro che l'attuazione (peggiorativa su singoli punti ma pur sempre un'attuazione) delle misure preparate dal governo Prodi-D'Alema-Ferrero appoggiato della cosiddetta sinistra radicale: PDCI, Verdi, SD e PRC (che avevano ministri in quel Governo!); centro-sinistra che, durante la campagna elettorale, aveva esplicitamente rincorso la destra sul terreno della sicurezza e che, sul piano locale, si era distinto per le proposte anti-rumeni di Veltroni, per i sindaci-sceriffi di Bologna (il buon Cofferati, che come sindaco non poteva rivelarsi meno reazionario che come sindacalista), di Firenze, ecc. Nell'attuale fase di crisi, il “pacchetto-sicurezza” garantisce schiavismo e bassi salari e, al contempo, con la sua demagogica propaganda che alimenta le spinte “di pancia” dei settori sociali più reazionari, lega al carro degli interessi del padronato gran parte della piccola borghesia e, purtroppo, settori consistenti di lavoratori.

L’insieme di queste misure dimostra che la borghesia si sente mancare il terreno sotto i piedi sul piano economico e reagisce, sul piano politico, usando sempre più il bastone e sempre meno la carota: di spazi reali per offrire carote, vale a dire per una politica realmente riformista, non ce ne sono più. Gli effetti della crisi sono ormai visibili, com'è ormai visibile che i padroni hanno tutta l'intenzione di far pagare a noi una crisi generata dal loro sistema, dal sistema che li pone al vertice dell'intero sistema sociale.
Il “pacchetto sicurezza” ha quindi come scopo primario quello di dividere il proletariato e giustificare misure eccezionali di controllo e repressione che possano colpire, come già fanno, qualunque tentativo di difesa politica e di riorganizzazione.

Tutto si tiene, perché queste questioni non sono legate soltanto ai piani politici bipartisan della borghesia e dei suoi Governi ma anzitutto alla realtà dell'attuale fase di crisi. Per questo motivo, ricostruire la capacità di una politica autonoma e indipendente dei lavoratori significa ricostruire la capacità di riannodare i fili di questioni che solo in apparenza sono separate, per comprendere che l’attacco è uno e tutti noi, come proletari, siamo sotto lo stesso attacco.


L’unica risposta possibile all’aggressione politica generale dei padroni sta nel porre la questione di ricondurre tutte le lotte, in special modo quelle dei lavoratori immigrati, a una opposizione politica unitaria, generalizzata e di classe di tutto il variegato fronte dei lavoratori. Questa è la sfida che tutti coloro che vogliono, o dicono (a cominciare dal sindacalismo di base e dalle sue direzioni) di volere fare un'opposizione conseguente e di classe devono raccogliere, a partire dai momenti concreti di mobilitazione che ci stanno davanti.

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― obbligo di dimostrare l’idoneità di alloggio per ottenere l’iscrizione anagrafica, che colpisce immigrati, senzatetto, occupanti di case, ecc.;
― possibilità di espellere cittadini UE se senza reddito o se indesiderati;
per chi è senza permesso di soggiorno:
― obbligo per medici e infermieri di denuncia se chiedono cure al servizio sanitario;
― divieto di riconoscere i figli quando nascono e di sposarsi legalmente;
― divieto di inviare soldi alla famiglia, attraverso il controllo delle banche e delle aziende di money transfert;
― aumento del periodo di detenzione nei LAGER (ora CIE- Centri di identificazione, ex CPT) fino a 18 mesi;
― nuova tassa per la richiesta o il rinnovo del permesso di soggiorno;
― condizioni più restrittive per acquisire la cittadinanza e, dulcis in fundo, l’ingresso e il soggiorno illegale nello stato passa da illecito amministrativo a reato penale: in poche parole, NON SI TRATTA DI IMPEDIRE L’ARRIVO DI LAVORATORI “IRREGOLARI” MA DI COSTRINGERE CHI ARRIVA IN ITALIA IN CONDIZIONI DISUMANE A POTER ESSERE PIEGATO A QUALSIASI USO DA PARTE DEL PADRONATO.

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NOI LA CRISI NON LA PAGHIAMO !
ITALIANI E IMMIGRATI: NESSUNA DIVISIONE PERCHE’ UNICA E' LA LOTTA DEGLI SFRUTTATI
PERMESSO DI SOGGIORNO AUTOMATICO E SENZA CONDIZIONI
CITTADINANZA AUTOMATICA A TUTTE LE PERSONE NATE IN ITALIA
CHIUSURA DI TUTTI I LAGER, CPT, CIE, ecc...

Travailleurs italiens et immigrés, mêmes patrons, même combat!
¡ Nativa o extranjera, la misma clase obrera !
Italian and Immigrant workers, same bosses, same fight!
العمال الايطاليين و العمال المهاجرين.
لنكافح معا لبناء اتحاد الطبقات العامله ، من اجل حقوقنا،ولمكافحة العنصريه.


Collettivo comunista di via Efeso - collcomunista.viaefeso@yahoo.it - http://www.collcomunista-viaefeso-roma.blogspot.com/
Corrispondenze metropolitane - cmetropolitane@yahoo.it Roma, 30-gennaio 2009 – fip. Via Efeso 2,b

15.1.09

Solidarietà con Gaza (14/01/09)


CONTRO L’AGGRESSIONE ISRAELIANA A GAZA!
SOLIDARIETA’ CON LA RESISTENZA DEL MARTORIATO
POPOLO PALESTINESE!

Da almeno tre settimane stiamo assistendo al perpetuarsi delle ennesime ingiustizie, violenze, aggressioni militari da parte dell'esercito Israeliano nei confronti del già martoriato popolo Palestinese che vive nella striscia di Gaza.
A 19 giorni dall’inizio dell’operazione “Piombo fuso” si contano ormai più di 1000 morti, un terzo dei quali sono bambini, e oltre 4600 feriti. Queste cifre parlano da sole: con le bombe al fosforo bianco, i bombardamenti a tappeto da terra, cielo e mare su popolazioni civili, lo Stato d’Israele non è solo fuori legge (quelle di cui si è dotata la cosiddetta “comunità internazionale”) e non solo meriterebbe di essere riconosciuto come vero e proprio “Stato canaglia”.
Con questa offensiva il governo israeliano, a poche settimane delle elezioni in Israele, vuole rifarsi un’immagine da “duro” nei confronti dell’opinione pubblica israeliana. Inoltre, l’obiettivo è quello di terrorizzare e dare una lezione al popolo palestinese, colpevole di avere “votato male” per Hamas durante le elezioni democratiche organizzate nel 2006 e infliggere un duro colpo alla resistenza palestinese; obiettivo attualmente solo parzialmente raggiunto poiché limitato a un contenimento dei lanci dei razzi Kassam verso Israele.
Il governo Israeliano di Olmert si fa forte delle garanzie militari offerte dell’amministrazione USA uscente e del tacito consenso del neo-eletto presidente Obama. L’Unione Europea, dopo un primo sostegno esplicito ai bombardamenti aerei, si fa ormai più critica nei confronti di Israele. In effetti, l’operazione potrebbe avere delle conseguenze imprevedibili e, riaccendendo la polveriera mediorientale, potrebbe mettere in pericolo gli stessi interessi degli imperialismi europei nella regione. Nonostante le lacrime di coccodrillo versate sui morti civili palestinesi, i governi europei sia di centro-sinistra sia di centro-destra (in Italia, l’attuale governo ma anche quello precedente di Prodi-D’Alema-Ferrero) sono in realtà corresponsabili della situazione attuale: sono loro ad aver decretato l’embargo su Gaza, sono loro a occupare il Libano. Chiedendo un cessate il fuoco che mette sullo stesso piano oppressi, cioè la popolazione palestinese e la resistenza, e oppressori, il governo israeliano e il suo esercito, i paesi imperialisti europei e l’Onu in realtà appoggiano il massacro perpetrato da Israele.
Di fronte alla situazione attuale, una vera e propria operazione di pulizia etnica di un popolo reo di rivendicare e lottare per il proprio diritto a vivere nella sua Terra, numerose manifestazioni si sono susseguite in tutto il mondo, nelle capitali europee, nei paesi arabi e perfino in Israele.
Testimoniare un’elementare solidarietà nei confronti del popolo palestinese vuole anche dire lottare contro il governo Berlusconi, amico, come Prodi, di Olmert e complice della situazione che vivono i Palestinesi e i popoli oppressi della regione, dal Libano all’Afghanistan, paesi entrambi occupati da truppe italiane. Manifestare la nostra solidarietà vuole anche dire collegare la lotta contro l’aggressione sionista alla lotta contro le politiche anti-popolari e anti-operaie portate avanti dal governo. È quello che hanno fatto, negli ultimi giorni in Grecia, gli studenti e i lavoratori, che continuano a manifestare e a lottare contro il governo Caramanlis.

Abbasso l’aggressione israeliana contro Gaza!

Viva la resistenza del popolo palestinese!

Per la sconfitta del sionismo e di tutte le forze imperialiste di occupazione nella regione, a cominciare dal Libano e dall’Afghanistan!

Contro il governo e la borghesia italiana, complici dell’offensiva israeliana, sviluppiamo il percorso di mobilitazione di solidarietà con il popolo palestinese, portiamo la battaglia sui luoghi di lavoro e di studio per rafforzare e unificare le vertenze in corso contro la politica anti-operaia di Berlusconi e l’ondata di licenziamenti!

MANIFESTAZIONE NAZIONALE ROMA - 17 gennaio - 15,30 – P.za Vittorio Emanuele

COLLETTIVO COMUNISTA DI VIA EFESO 14/1/09



Gaza: un vero e proprio ghetto

Da anni Gaza sopravvive come un vero e proprio ghetto. Uno spietato isolamento economico, politico e culturale la separa dal mondo. Un milione e mezzo di abitanti prigionieri dell’esercito israeliano e privati di tutto: alimenti, combustibile, elettricità, medicine, materiale per la scuola. La popolazione – da sessant’anni sotto il giogo di una barbara oppressione – subisce oggi questo feroce “castigo” collettivo per aver commesso il delitto di votare “democraticamente” per Hamas.
I palestinesi nella striscia di Gaza erano stati condannati dal Governo israeliano a una morte lenta: quasi l’80% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, il tasso di disoccupazione raggiunge il 65%; lo stipendio annuo è di 443 euro all’anno, ovvero 1,36 euro al giorno. Il 60% dei bambini soffrono di denutrizione. La libertà di circolazione tra la striscia di Gaza, la Cisgiordania, Gerusalemme e tra queste e il mondo esterno è impedita. Circa 260 persone sono morte durante lo scorso anno per mancanza di medicinali e perché impossibilitate a uscire dal territorio. L’unica fabbrica di medicinali è ferma per la mancanza di materie prime. Più di 1500 containers di materie prime sono bloccati nei porti israeliani. I progetti di costruzione e sviluppo di strutture sanitarie e istituti scolastici sono stati sospesi. Le interruzioni di elettricità sono quotidiane.




Lo stato di Israele è razzista


Israele rappresenta così in Medio Oriente quello che il Sudafrica dell’Apartheid rappresentava per l’Africa australe: una sorta di “colonia” che impone alle popolazioni autoctone una dominazione connotata in senso razzista, la cui esistenza non sarebbe possibile senza l’aiuto delle potenze imperialiste “in cambio dei servizi prestati” in questo caso agli Stati Uniti e ai paesi dell’Unione Europea.
Quando un governo giudica che la vita di un soldato israeliano è più importante di quella di cento bambini e civili palestinesi, lo Stato rappresentato da questo governo è uno stato razzista. Quando le forze armate nei territori occupati illegittimamente proibiscono ai civili di spostarsi, di andare a prendere l’acqua dai pozzi e dalle fonti, di lavorare nei campi, visitare le proprie famiglie, andare a scuola o al lavoro, transitare da un villaggio a un altro, portare soccorso medico ai bambini malati, lo stato rappresentato da questo governo è uno stato razzista e colonialista. Quando il governo sionista costruisce il muro della vergogna per chiudere in un ghetto il popolo palestinese, rade al suolo case e oliveti, caccia, espelle, imprigiona, tortura, affama, questo governo e il suo esercito appartengono a uno stato razzista e colonialista.

12.1.09

Sciopero generale del 12/12


FACCIAMO IN MODO CHE IL 12 DICEMBRE SIA UN PASSO ULTERIORE VERSO UNA VERTENZA GENERALIZZATA E CONTINUATIVA CONTRO GOVERNO E PADRONI !

Questo sciopero si svolge in un clima movimentato a livello Italiano, e molto movimentato a livello internazionale, un clima segnato da una raffica di mobilitazioni e di lotte.

In Francia: scioperi della scuola e sciopero generale previsto a gennaio contro il piano anti-crisi di Sarkozy; in Spagna: mobilitazioni degli studenti contro la riforma della scuola di Zapatero (22/10 e 13/10) e mobilitazione degli operai del settore automobilistico; in Germania: la pressione delle tute blu obbliga IG Metal a convocare uno sciopero agli inizi di novembre cui hanno partecipato mezzo milione di operai (aumenti salariali richiesti, in un settore di massima crisi: + 8%); in Irlanda: manifestazioni degli insegnanti, con 70.000 persone in piazza, contro i tagli alla scuola, il 6/12; in Argentina: scioperi tra i metalmeccanici (General Motors a Rosario, Iveco-Fiat e altre industrie automobilistiche a Cordoba) contro esuberi e licenziamenti. Negli USA, dove la crisi si fa ogni giorno più forte, la fabbrica “Republic Windows & Doors” di Chicago è stata occupata dal 5 dicembre per esigere il pagamento degli arretrati. Gli operai, con lo slogan “i lavoratori uniti non saranno mai sconfitti”, riscoprono uno strumento di lotta – l’occupazione – sostanzialmente dimenticato dalla classe operaia USA dopo i grandi scioperi degli anni Trenta. E, alla fine di questa breve e incompleta “carrellata”, in Grecia: dopo gli scioperi generali (ricordiamo quello enorme del 23 ottobre) e le manifestazioni degli ultimi anni contro la riforma delle pensioni, contro la privatizzazione della previdenza e dei servizi e contro la riforma scolastica, la temperatura dello scontro di classe si è fatta sempre più alta. È scesa in campo tutta la gioventù operaia e studentesca (la “generazione dei 700 euro”), fronteggiata dalla repressione della polizia e da un'ondata di arresti. Di fronte al brutale assassinio politico del quindicenne Alexis Grigoropoulos – assassinato per mano della polizia – la reazione popolare è stata durissima: scontri con le forze dell’ordine in tutta la Grecia, che oggi è in fiamme, e non solo simbolicamente: lo sciopero generale del 10 dicembre esige le dimissioni del Governo.

Anche in Italia, come diciamo più diffusamente nell’ultimo numero del nostro giornale, “Classe contro Classe”, sono scesi in campo molti comparti del mondo del lavoro e della società, come espressione del malcontento esistente e diffuso nei confronti della politica del Governo e dell’offensiva che Confindustria intende portare avanti, oltre che di una generale e perdurante sfiducia.

La crisi e l'esplosivo malcontento sociale spingono le direzioni sindacali a reagire preventivamente

Bisogna essere chiari: questo quadro di mobilitazioni sociali (riportato in modo incompleto e non certo esaustivo) deve essere letto e può essere compreso, nel suo reale significato e nei suoi sviluppi futuri, solo a partire dalla crisi economica e quindi sociale che nel concreto delle fabbriche, dei posti di lavoro e dei servizi pubblici sta manifestando tutta la sua nefasta esplosività. Queste mobilitazioni sono l’”anticipo” di una escalation di lotte che i lavoratori di tutti i paesi saranno costretti ad intraprendere sotto i colpi della crisi.

Solo su questa base possiamo rispondere efficacemente alla domanda: qual è – da noi in Italia – la situazione attuale delle mobilitazioni, quali sono le spinte reali che hanno portato a questo “duplice” sciopero generale del 12 dicembre? E, soprattutto, quali saranno gli scenari futuri e i compiti che abbiamo davanti?

Sullo sciopero della CGIL, di cui si sono dette e scritte tante cose, è necessario ribadire che il fattore più importante per spiegare questo sciopero e l’intero quadro di scioperi e mobilitazioni dei vari settori, (ed anche, per vie diverse, delle straordinarie mobilitazioni del movimento degli studenti) sta appunto nella spinta oggettiva data dalla crisi e dal malcontento sociale. Questa spinta ha indotto (e in una certa misura costretto) la burocrazia sindacale, in primis le Direzioni della CGIL, a muoversi “preventivamente”.

Questo è il primo motivo, al di là di quelli (veri ma secondari) che spiegano tutto solo attraverso lo scontro politico tra correnti dentro il sindacalismo confederale e all’interno della stessa CGIL, o attraverso la dialettica politica e i reciproci posizionamenti del movimento degli studenti, dei confederali e dei sindacati di base. La CGIL oggi si muove soprattutto perché non può permettersi di rischiare di perdere il controllo della situazione, perché deve evitare che si sviluppi un reale scontro sociale e quindi deve svolgere – in maniera preventiva e anticipata – il ruolo di collettore e di fattore di incanalamento della rabbia sociale. Una rabbia che comincia a fare capolino nell’ondata attuale di scioperi, manifestazioni, vertenze e lotte.

Non è dunque una coincidenza che tutta la situazione internazionale, a diversi livelli, veda coinvolte nelle lotte anche (e talora soprattutto) le principali confederazioni sindacali dei vari paesi: questi sindacati sono tanto concertativi quanto la CGIL e soci “di casa nostra”. Negli scorsi anni, per esempio, sono state corresponsabili delle controriforme anti-operaie e anti-popolari varate sia dai Governi di centro-sinistra (con l’appoggio in Francia e in Italia, ad esempio, dei cosiddetti comunisti) sia da quelli di centro-destra, o hanno sempre fatto di tutto, costantemente, per imbrigliare, controllare e depotenziare le lotte.

Unificare le vertenze e le mobilitazioni dal basso, l’unico modo per non fare il gioco di Epifani

Qual è quindi la strategia migliore per non fare il gioco della CGIL, che è stata corresponsabile delle controriforme in Italia negli ultimi anni, e che solo un anno fa ha appoggiato la micidiale controriforma del protocollo Damiano attuata dal governo Prodi-D’Alema-Ferrero?

Non pensiamo che passi attraverso la partecipazione acritica alla mobilitazione della CGIL, o magari appoggiando qualche presunta “ala sinistra” del sindacato come la direzione della FIOM o della Rete 28 aprile. Non passa nemmeno attraverso la scelta, fatta da RdB, di non chiamare alla mobilitazione perché la CGIL quel giorno scende in piazza; e neanche attraverso l’appello a manifestare in una piazza alternativa come il 12 farà la maggior parte delle organizzazioni del sindacalismo di base.

Pensiamo che passi per la capacità di porre concretamente, a settori di lavoratori più vasti di quelli normalmente toccati dal sindacalismo di base, il problema dei contenuti, delle piattaforme. E pensiamo che per fare questo sia necessario porre anche un problema di metodo, di costruzione delle vertenze, delle mobilitazioni e degli scioperi. È necessario unificare tutte queste vertenze e queste mobilitazioni, unificarle dal basso, e per farlo bisogna intervenire all'interno di queste lotte, per come si presentano nella realtà e non solo se rispondono ai nostri desideri, non solo se sono dirette dal sindacalismo di base.

È un errore gravissimo ignorare il malcontento espresso da ampi settori di lavoratori solo perché mobilitati sotto le bandiere della CGIL. Lo diciamo chiaramente, pur essendo compagni che – nel concreto – militano tutti dentro le fila del sindacalismo di base. Manifestare, come fa il sindacalismo di base, in due piazze separate di per sé non incrina minimamente l’egemonia della CGIL, anzi le lascia – non solo in piazza ma sui posti di lavoro – uno spazio politico non conteso. Si lascerebbe fare ad Epifani, indisturbato, quello che ha fatto Cofferati tra il 2001 e il 2004, ossia cavalcare l’ondata di mobilitazioni per meglio canalizzarle e per meglio preparare il terreno all’Unione e successivamente al governo Prodi-D’Alema-Ferrero.

Il problema concreto da porsi è allora: come rimettere in discussione l’egemonia ideologica e reale della direzione della CGIL su questi settori? Per farlo è necessario dare battaglia politica, ovunque sia possibile. È necessario lavorare per fare emergere le contraddizioni tra le spinte dei lavoratori e la direzione verso cui le porta la CGIL, fare emergere queste contraddizioni sui luoghi di lavoro, nelle scuole e nelle università, e nelle piazze, senza fuggire ma imponendo il confronto e lo scontro. Siamo noi ad avere interesse a fare chiarezza, e non la direzione della CGIL. Siamo noi che abbiamo interesse a che i lavoratori si confrontino e si scontrino sulle varie posizioni e le varie opzioni politiche.

Per andare in quella direzione, sarebbe compito del sindacalismo di base e di tutte le organizzazioni che si collocano su un terreno classista e combattivo, a cominciare dalla sinistra antagonista, creare le condizioni per l’unificazione dal basso della mobilitazione e costruire una grande assemblea nazionale operaia e studentesca, basata su delegati eletti democraticamente e revocabili, capace di porre le basi di una direzione alternativa che sia in grado di contendere alla burocrazia sindacale la sua egemonia, per portare avanti lo scontro sociale e far sì che la crisi la paghino padroni e governi.

· Contro il divisionismo, per l’unificazione dal basso di tutte le mobilitazioni e di tutte le vertenze in atto!

· Per un programma d’emergenza operaia per rispondere alla crisi, da discutere e adottare in assemblee di base trasversali!

· Per un’assemblea nazionale operaia e studentesca per discutere delle misure di forza da prendere per portare avanti lo scontro sociale e far sì che la crisi la paghino padroni e governi!

· La Grecia non è che l’inizio della rivolta: Alexis Grigoropoulos è vivo e lotta insieme a noi.

Roma, 12/12/08

W la resistenza del popolo palestinese (24/11/08)


Riportiamo il volantino distribuito (in italiano e arabo) alla manifestazione per la Palestina dello scorso 29 novembre.


LE SPERANZE DEL POPOLO PALESTINESE STANNO SOLO NELL’AZIONE INDIPENDENTE DEL PROLETARIATO MEDIORIENTALE ED INTERNAZIONALE. DI CERTO NON NELL’AZIONE DELLE DIPLOMAZIE DEGLI IMPERIALISMI USA, EUROPEI O DELL’ONU; NE’ DELLA BORGHESIA PALESTINESE E ISRAELIANA.


Con l’assedio di Gaza, un milione e mezzo di persone sono costrette a morire di fame e di sete nell’indifferenza generale, con la complicità – tra gli altri - anche del Governo italiano
Abu Mazen prova ad approfittare del braccio di ferro tra Israele e Hamas per attuare un colpo di Stato che induca il Consiglio centrale dell’OLP a proclamarlo “presidente della Palestina” e convocando elezioni anticipate. La sua politica conferma la attuale natura coerentemente collaborazionista del partito che fu di Arafat, una tendenza alla mediazione tra gli interessi nazionali palestinesi e quelli delle potenze imperialistiche che si è rafforzata dopo i criminali accordi di Oslo. Espressione degli interessi della grande borghesia palestinese, economicamente e finanziariamente tutt’altro che marginale nei paesi arabi ma priva di una propria base territoriale, tale politica mira a ritagliare una entità statale palestinese all'interno degli attuali assetti imperialistici, senza metterli in discussione, e quindi di fatto tradendo la causa del popolo palestinese.
La complessa situazione all'interno di Israele è segnata da:
· una forte crisi di regime e dei partiti tradizionali, ulteriormente inasprita dagli scandali che hanno pesantemente screditato la classe politica (come nel caso di Katzav, ex presidente, e di Olmert, Primo Ministro, anche se per poco tempo ancora);
· una forte crisi sociale, che non potendo che acuirsi sotto i colpi di quella internazionale, condizionerà pesantemente l’economia israeliana, che è una economia di guerra;
· la crisi egemonica economica e militare dell'alleato statunitense, che negli ultimi anni ha avuto sullo stato sionista una pesante ricaduta, come ha dimostrato la sconfitta di Tsahal nella guerra dei 33 giorni in Libano durante l’estate 2006.
Questi fattori spingono oggettivamente verso un'ulteriore svolta a destra della situazione israeliana, svolta della quale approfitteranno sicuramente i falchi sionisti. Costoro, sfruttando a proprio vantaggio il processo di disgregazione sociale e politica, utilizzeranno più efficacemente l’insicurezza derivante dalla conflittualità con i paesi vicini (Iran, Siria) e la stessa “questione palestinese” per rafforzare il clima di unità nazionale e scaricare sulle spalle dei popoli oppressi della regione e sul groppone delle proprie classi subalterne (israeliani arabi e proletariato israeliano) il costo della crisi attuale, una crisi aggravata dal fatto che il sionismo è di per sé economia di crisi e di guerra.
Ancora una volta emerge con chiarezza che il popolo palestinese e i popoli della regione mediorientale non possono aspettarsi nulla di buono: né dalle proprie direzioni politiche, disposte a svendere la legittima aspirazione all’autodeterminazione di un intero popolo; né dalla recente vittoria di Obama che, sebbene chiuda il periodo neocon statunitense, non vuole (e per la natura degli interessi che rappresenta non può) cambiare rotta nei confronti del problema palestinese; né dalle mediazioni dell'Unione Europea che se, da un lato, ha sostenuto “criticamente” l’assedio di Gaza, dall'altro, ha occupato il Libano. Gli Europei, seppure seguendo una linea d'intervento diversa da quella statunitense (in quanto diversi sono gli interessi che li legano alla periferia del Mediterraneo - come dimostra p. es. il progetto Euromed/Unione) non intendono affatto rompere, anzi intensificano, i rapporti economici e politici con Israele.
Su un altro fronte, i piani di pace dei paesi arabi, siano essi egiziani o sauditi, facendo più o meno leva sull’OLP o trattando direttamente con Hamas, mirano al raggiungimento di un compromesso con Israele sulla questione di Gerusalemme e dei territori occupati dopo il '67.
Un compromesso che, lungi dal garantire una reale indipendenza politica al popolo palestinese, e lungi dal costituire una soluzione dei problemi strutturali di questo popolo e dei suoi rifugiati, condurrebbe in un vicolo cieco la lotta democratica di liberazione nazionale, come è successo negli anni che vanno dagli accordi di Oslo alla fine della prima guerra del Golfo, fino alla salutare esplosione della seconda Intifada nel 2000. Un compromesso con la funzione obiettiva di “tappo” della lotta, e di disinnesco dell'esplosiva rabbia popolare del mondo arabo suscitata dalla questione palestinese.
Come arrivare dunque alla soluzione del conflitto arabo-israeliano e alla liberazione del popolo palestinese dal giogo dell’oppressione nazionale?
La soluzione apparentemente più semplice e a portata di mano, quella che passerebbe per la diplomazia delle grandi potenze (o del loro strumento, l’ONU), è dunque in realtà – quand’anche fosse portata a termine, e siamo ben lontani - una “non soluzione”. Essa porterebbe diritto diritto alla creazione di uno staterello bantustan, privo di reale ed effettiva indipendenza politica, buono al più per gli interessi della borghesia palestinese (e accettabile per quella israeliana) ma pessima per proletari e contadini palestinesi, che manterrebbero sulle proprie spalle l’enorme peso del doppio fardello dell’oppressione nazionale e di quella di classe.
L’unica soluzione possibile passa, invece, per la lotta politica indipendente dei proletari e contadini palestinesi e israeliani, una lotta liberata dalla sudditanza agli interessi delle proprie borghesie collaborazioniste con l’imperialismo, una lotta che li veda schierati su un unico fronte per una Palestina unica e laica.
La soluzione del conflitto arabo-israeliano non può che passare infatti attraverso lo scontro diretto con l’imperialismo USA e gli imperialismi europei, principali responsabili dei conflitti nella regione, e l’opposizione intransigente al sionismo, agente e complice del mantenimento del giogo imperialista nella regione. Questa battaglia del proletariato e del popolo palestinese, non può prescindere dall'intervento diretto dell’avanguardia operaia e giovanile israeliana, che già negli anni '70 e nella prima guerra del Libano dell'82 aveva saputo contrastare la propria borghesia. Senza un'opposizione ferma e incondizionata alla propria borghesia, ai carcerieri dei popoli oppressi della regione, i lavoratori israeliani saranno condannati a farsi complici dei crimini perpetrati da essa, a perpetrare le condizioni dello sfruttamento cui essi stessi sono sottoposti, e infine – vista la situazione di guerra permanente in cui sono costretti a vivere - a farsi carne da cannone per gli interessi dell’imperialismo.
Nelle metropoli imperialiste, e dunque anche da noi in Italia, il compito più urgente di tutte le forze che dichiarano di essere solidali con i popoli oppressi e di voler opporsi in Italia alla politica anti-operaia e imperialista del proprio governo, a cominciare dal sindacalismo di base e dalla sinistra antagonista, dovrebbe essere quello di creare un fronte politico unito che si schieri incondizionatamente a fianco delle resistenze contro l’imperialismo e il sionismo. È l'unico modo per rafforzare le posizioni di chi intende lottare, assieme al proletariato e alle classe subalterne della regione, per l’effettiva liberazione nazionale e sociale. Il fondamentalismo religioso, ebreo o islamico, è il prodotto delle sconfitte dei proletariati e dei popoli della regione a tutto vantaggio dell’imperialismo, e non il contrario.
· Contro l’imperialismo USA ed europeo, le occupazioni militari ONU e il sionismo!
· Contro la falsa soluzione dei “due popoli due stati”, che mantiene la doppia oppressione nazionale e di classe.
· A fianco delle resistenze, per una Palestina unica, operaia, contadina e socialista, nella quale possano vivere in pace i lavoratori arabi ed ebrei!




الحالة الراهنة في فلسطين

سوف يضطر 1.5 مليون شخص للموت من الجوع والعطش بسبب الحصار في قطاع غزة ، وسط اللامبالةالعامة ،و بالتواطؤ مع حكومتنا. داخليا ، أبو مازن يحاول استخدام موازين القوى التي خلقتها إسرائيل ضد حماس للقيام بانقلاب بارد،و لتحقيق ذلك طالب المجلس المركزي لمنظمة التحرير الفلسطينية باعلانه "رئيس فلسطين" والدعوة الى اجراء انتخابات مبكرة ، مما يؤكد طبيعة المتعاونين ، المؤيدة للصهيونية والامبريالية من حزب عرفات ، وهو اتجاه تعزز بعد اتفاقات أوسلو.
الوضع في اسرائيل معقد جدا ، هناك أزمة عميقة للنظام والأحزاب التقليدية، لأن مصداقيةو سمعة الطبقة السياسية بعد فضائح الفساد أصبحت محل شك
، على سبيل المثال. كاتساف (الرئيس السابق) ، اولمرت (رئيس الوزراء لقليل من الوقت حتى الآن) وهلم جرا.

على الشعب الفلسطيني وشعوب المنطقةألا تتوقع أي شيء حسن من فوز أوبامافي الآونة الأخيرة. حتى و إن كانت ستنهي حقبة المحافظون الجدد في الولايات المتحدة ، فإن الإدارة الديمقراطية القادمة لا تعتزم تغيير المسار نحو حل أساسي للمشكلة الفلسطينية.

على الشعب الفلسطيني وعلى شعوب المنطقةألا تتوقع أي شيء حسن من الوساطة الأوروبية. كما يتضح من التدخل الأوروبي في لبنان ، أو دعم الحصار في قطاع غزة في كلا الحالتين تثبت أن الأوروبيون ، وحتى دون الدخول على نفس الخط مع
الولايات المتحدة والتي لها علاقة مختلفة مع مستعمرات محيط البحر الأبيض المتوسط، كما يتضح من يوروميد / الاتحاد من اجل البحر الأبيض المتوسط)
،لا تنوي بأي حال من الأحوال قطع العلاقات مع اسرائيل.

إلى خطط السلام العربية ، سواءالسعوديين أو المصريين. وفي كلتا الحالتين ، لا أكثر أو أقل من الضغط على منظمة التحرير الفلسطينية أو المساومة المباشرة مع حماس ،التي تهدف للتوصل إلى حل وسط مع اسرائيل حول قضية القدس والأراضي المحتلة بعد 67.

معا ضدالامبرياليةالأمريكيةوالاوروبية،وضدالاحتلال العسكري من خلال قوات وقرارات الامم المتحدة وضد الصهيونية!

جنباإلى جنب مع المقاومة من أجل فلسطين واحده ،للعمال ،والفلاحين و من أجل فلسطين اشتراكية ، حيث يمكن أن يعيش في سلام العرب و اليهود

Venezuela: basta omicidi politici contro sindacalisti in lotta (01/12/08)


VENEZUELA: BASTA OMICIDI POLITICI CONTRO SINDACALISTI OPERAI IN LOTTA!

1 dicembre 2008: dichiarazione di solidarietà per l’omicidio politico di tre dirigenti operai in Venezuela: Richard Gallardo, Luís Hernández e Carlos Requena. Esigiamo che sia fatta piena luce sulle responsabilità materiali e intellettuali di questo crimine contro l’avanguardia di classe in Venezuela e che vengano puniti i responsabili!

Giovedi’ 27/11 sono stati assassinati a Cagua, nello stato centro-venezuelano di Aragua, i tre compagni Richard Gallardo, coordinatore nazionale dell’UNT (Unione Nazionale dei Lavoratori) e presidente della sezionale di Aragua dell’UNT, Luís Hernández, dirigente sindacale di Pepsi Cola, e Carlos Requena, delegato alla sicurezza sul lavoro di Produvisa. Erano tutti dirigenti della CCURA (Corrente Classista Unitaria Rivoluzionaria ed Autonoma, all’interno dell’UNT) e militanti trotzkisti dell’USI (Unità Socialista di Sinistra).

I compagni erano impegnati nella lotta della fabbrica Alpina, una ditta di capitale colombiano. I lavoratori di Alpina hanno occupato la fabbrica per la mancata applicazione del contratto di lavoro e per il rischio di chiusura della ditta. Lo stesso 27 novembre i lavoratori di Alpina avevano dovuto affrontare la polizia che, volendo sgomberare la fabbrica, aveva lasciato quattro lavoratori feriti. Con la solidarietà dei lavoratori e dei dirigenti sindacali dell’UNT, i lavoratori di Alpina avevano potuto riprendersi lo stabilimento. Durante il pomeriggio i compagni avevano chiesto che si pronunciasse il neo-eletto governatore della provincia, Rafael Isea, del PSUV, il partito di Chávez. Avevano inoltre riaffermato che, nel caso in cui la fabbrica avesse dovuto chiudere i battenti, i lavoratori l’avrebbero rimessa in produzione sotto controllo operaio, seguendo l’esempio dei compagni di Sanitarios Maracay, una fabbrica di sanitari della regione. La stessa notte i tre compagni sono stati colpiti mortalmente a fuoco nella zona dell’Encrucijada, a Cagua, da un commando di sicari prezzolati.

In passato i compagni dirigenti dell’UNT-Aragua, una delle regioni in cui l’UNT è l'organizzazione più combattiva, avevano già ricevuto minacce. Il triplice omicidio di giovedì è da collegare con la grande conflittualità operaia nella regione di Aragua, stato in cui è diventata emblematica la battaglia condotta da mesi dagli operai di Sanitarios Maracay, in lotta per la nazionalizzazione sotto controllo operaio della loro fabbrica, all’origine del primo sciopero operaio regionale in quasi dieci anni, avvenuto lo scorso anno.

Quest’anno abbiamo dovuto constatare come durante la vertenza di Fundimeca, una fabbrica di ventilatori di Valencia (nello stato di Carabobo, uno dei principali poli industriali del paese), il padronato aveva utilizzato dei sicari per provare a spezzare la dura lotta portata avanti dalle operaie per i loro diritti, ferendo con armi da fuoco una compagna. Tutto questo si è svolto con la perfetta complicità dei giudici e dei corpi di polizia dello stato di Carabobo.

Schierati incondizionatamente dalla parte degli operai contro il dominino del capitale e dell’imperialismo, siamo al fianco del proletariato, delle masse popolari e dell’avanguardia di classe in Venezuela contro i complotti e i piani sovversivi della borghesia reazionaria su vari fronti e appoggiati in gran parte dall’amministrazione Bush. In questo senso, ci riconosciamo pienamente nella massiccia mobilitazione delle masse popolari contro il colpo di Stato del 2002, che ha fatto fallire i piani reazionari dell’imperialismo USA, così come ci schieriamo contro i tentativi di destabilizzazione portati avanti dalla reazione di Santa Cruz a settembre di quest’anno.
Bisogna sottolineare che, dopo quasi un decennio al potere, malgrado grandi mobilitazioni, giornate di lotta e un andamento economico favorito dagli alti prezzi del greggio negli ultimi anni, il chavismo non ha portato cambiamenti strutturali significativi per il paese. Sebbene siano stati introdotti alcuni miglioramenti nei settori educativo e sanitario, rispetto allo stato catastrofico nel quale si trovava il paese negli anni Novanta non si sono registrati, stando ai dati ufficiali, miglioramenti consistenti in termini di lotta alla povertà e alla disoccupazione e di politica del reddito. Se quando Chávez è arrivato al potere nel 1999 il 20% della popolazione monopolizzava il 51,9% del PIL, oggi ne controlla il 47,7%, mentre il 20% della popolazione che dieci anni fa ne controllava un misero 4,4% è passato oggi al 5,1%.
Le misure varate dal governo negli ultimi anni, per esempio nei settori degli idrocarburi o della riforma agraria, rappresentano timidi tentativi di negoziazione con i diversi blocchi imperialisti, per sganciarsi almeno in parte dalla morsa USA, e con l’oligarchia. Non possono nemmeno essere paragonati alle misure nazionaliste borghesi del presidente Cárdenas in Messico negli anni Trenta o alla politica riformista di aumenti salariali praticata da Perón nei primi anni Quaranta. La “nazionalizzazione del petrolio” venezuelano varata nel 2006 è consistita nella creazione di società miste fra la PDVSA, impresa statale, e le majors tramite l'acquisizione da parte del governo delle azioni delle multinazionali imperialiste a prezzo di quotazione mondiale. Per quel che riguarda la “Legge delle terre” (“Ley de tierras”), in un paese in cui l’80% della superficie coltivabile è in mano al 5% dei proprietari terrieri, la linea del governo rispetto alla “lotta contro il latifondo” può essere riassunta dalle parole dell'ex Ministro dell’Agricultura Albarrán: “Chi può dimostrare che le terre sono sue [buona parte dei titoli di proprietà dei latifondisti sono fraudolenti] e che sono produttive non ha niente da temere. Chi invece non produce sulle sue proprietà terriere dovrà pagare una tassa giusta”.
Nel frattempo, per tentare di incanalare e controllare con maggior fermezza il fermento operaio e popolare che, tra alti e bassi, attraversa il paese ormai da anni, Chávez ha messo in piedi il PSUV, Partito Socialista Unito del Venezuela, un fronte di collaborazione di classe finalizzato ad appoggiare le politiche del governo e in cui, in perfetta coerenza con l’ideologia “bolivariana”, si trovano fianco a fianco lavoratori, masse povere urbane, imprenditori “socialisti” e militari “patriottici”. Questo è il vero volto del “socialismo del XXI secolo” millantato dal chavismo.
L’assassinio di Richard Gallardo, Luís Hernández e Carlos Requena dimostra ancora una volta che non solo non esiste il socialismo in Venezuela, ma che le istituzioni dello stato borghese “bolivariano” stanno (e non poteva essere diverso) dalla parte degli interessi imprenditoriali e contro le lotte operaie e delle masse popolari, come dimostrano tragicamente le decine di assassinii di operai e contadini per mano dei sicari padronali, rimasti impuniti.

La repressione attuata dalla Guardia Nazionale e dalle diverse polizie regionali, unitamente all’azione della “giustizia” e dei sicari, rappresenta una morsa per le lotte più radicali che la classe operaia venezuelana sta cominciando a intraprendere. In Venezuela, come in Italia, non possiamo fidarci di tutti quei progetti fondati sulla conciliazione di classe, siano essi “bolivariani”o meno, e possiamo solo contare sulle forze proprie alla nostra classe.

Qui in Italia, come organizzazioni e strutture sindacali e/o politiche di classe, di lavoratori e studenti combattivi, presentiamo le nostre più sincere condoglianze alle famiglie e ai compagni di lotta di Richard Gallardo, Luís Hernández e Carlos Requena. Ci facciamo portavoce di tutti quei lavoratori e lavoratrici, militanti sindacali e politici, che in questi giorni hanno manifestato in Venezuela, esigendo che il governo regionale e nazionale faccia luce sul triplice omicidio, istituendo una commissione d’inchiesta composta dalle organizzazioni operaie.

Ribadiamo ancora una volta che questo triplice omicidio politico è il risultato della lotta di classe, una lotta che è internazionale e che, in tutti i Paesi, ha sempre dimostrato e dimostra che lo Stato non è mai neutrale ma è il braccio politico, amministrativo e militare della borghesia. In Italia se ne è avuta un'ennesima conferma con le recenti vicende giudiziarie che hanno sancito la sostanziale impunità di tutti i vertici delle forze di Polizia (e del Governo) dopo le note vicende della scuola Diaz e di Bolzaneto durante il G8 di Genova 2001, una sentenza che viene dopo l’incredibile capolavoro giuridico che ha mandato tutti assolti per l’omicidio politico di Carlo Giuliani. Tutto ciò dimostra che questo aspetto è connaturato anche nei cosiddetti paesi progrediti.

¡ Hasta el socialismo siempre !
Compañeros Richard Gallardo, Luís Hernández e Carlos Requena, ¡presentes!
Italia, 01/12/08
Inviare la propria adesione a:
collcomunista.viaefeso@yahoo.it

Verso il 12 dicembre… e oltre (24/11/08)


Verso il 12 dicembre… e oltre

ovvero cosa ci aspetta e cosa dobbiamo fare

Le ultime settimane sono state più che movimentate sul fronte politico-sociale. Hanno visto la prosecuzione della mobilitazione di quei settori che da metà settembre in poi sono stati all’avanguardia delle lotte, dal mondo della scuola (coordinamenti di genitori e lavoratori) e del movimento studentesco (Onda anomala) alla lotta dei lavoratori Alitalia. Nonostante i passaggi di forza del Governo, deciso a tirare dritto sia sulla riforma Gelmini che sulla vicenda CAI, continuano le mobilitazioni tra alti e bassi e con alcune difficoltà, i cui motivi affronteremo di seguito.

Sono scesi in campo anche nuovi comparti del mondo del lavoro e della società, come espressione del malcontento esistente e diffuso nei confronti della politica del Governo e dell’offensiva che Confindustria intende portare avanti, oltre che di una generale e perdurante sfiducia.

Ecco alcuni dei principali mobilitazioni e passaggi di questo ultimo periodo:
· 17 ottobre, sciopero generale del sindacalismo di base, con una massiccia partecipazione studentesca;
· 30 ottobre, sciopero generale della scuola indetto dai confederali, sempre con una forte partecipazione studentesca;
· 3, 7 e 14 novembre, scioperi e manifestazioni per i settori centro, sud e nord del Pubblico Impiego indetti dalla CGIL FP (funzione pubblica);
· Assemblea dei delegati FIOM con delegazione di studenti: viene lanciato lo sciopero dei metalmeccanici;
· 7 novembre, giornata nazionale di mobilitazioni cittadine del movimento studentesco;
· 11 novembre, terzo sciopero generale del settore trasporti e sciopero selvaggio dei lavoratori Alitalia di Fiumicino;
· 14 novembre, sciopero generale di Università e Ricerca (CGIL e UIL), affiancato dalla manifestazione nazionale degli studenti;
· 15 novembre, sciopero del settore terziario (FILCAMS CGIL);
· 22 novembre, manifestazione nazionale delle donne contro violenza, abusi e discriminazioni, molto partecipata;
· 20 e 25 novembre, scioperi generali territoriali a Brescia e a Casale Monferrato contro l’ondata di licenziamenti.

Naturalmente tutte queste iniziative non possono essere messe sullo stesso piano, né per valenza e motivazione politica né per quanto riguarda i livelli di mobilitazione, le loro cause e il loro significato. Si tratta invece di registrare una tendenza generale che, come cercheremo di argomentare, dà precise indicazioni politiche rispetto ai compiti cui siamo oggettivamente chiamati a rispondere.
Un governo più debole di quello che sembra, un’opposizione parlamentare fantasma e una pressione dal basso che ha trasformato il panorama sociale e politico

L’ondata di mobilitazioni di centinaia di migliaia di giovani e di lavoratori nelle ultime settimane ha fondamentalmente dimostrato tre cose:

a. che il governo attuale è ben lontano dall’essere una potente macchina da guerra, un rullo compressore. Al contrario, sebbene si sforzi di trasmettere un’immagine di Esecutivo forte – perseguendo, attraverso l’uso di un linguaggio populista e securitario, l’obiettivo di travolgere conquiste e diritti –, esso trae la sua forza dall’anestesia sociale in cui si è trovato il movimento dei lavoratori e degli studenti a partire dall’arrivo al potere di Prodi nel 2006. L’attuale combinazione di mobilitazione sociale e di crisi economica (che nel futuro prossimo peggiorerà di molto, con conseguenze pesantissime sui lavoratori e su tutti i settori popolari) fa sì che oggi questo Governo si ritrovi sulla difensiva. Ovviamente ciò non vuol dire che si siano ribaltati i rapporti di forza, che continuano a essere sfavorevoli alla nostra classe. Evidenzia però che il Governo di Berlusconi, come temevano i settori più lungimiranti della grande borghesia italiana, dimostra chiaramente di non essere la soluzione politica e sociale più adeguata per tutelare al meglio i loro interessi e guidare lo scontro sociale a loro vantaggio, come era riuscito a fare negli ultimi mesi il governo Prodi-D’Alema-Ferrero;

b. che l’opposizione parlamentare democratica del PD si è completamente eclissata. Malgrado il successo veltroniano della manifestazione del 25 ottobre, l’opposizione – incalzata dalle ultime lotte sociali – ha scelto di restare in seconda fila, “facendo opposizione” su temi insignificanti quali la vigilanza RAI per far meglio dimenticare di essere fondamentalmente d’accordo con l’agenda governativa anti-proletaria e anti-popolare, agenda che lo stesso centro-sinistra ha preparato quando stava al governo. Per inciso, ciò dà spazio all’IdV, che a buon prezzo può ricavarsi un’immagine di opposizione intransigente. In una fase di acutizzazione dello scontro sociale, il ruolo dell’opposizione borghese di centro-sinistra, come già ricordava all’epoca del movimento anti-CPE Dominique Strauss-Khan, dirigente del Partito Socialista francese e attuale direttore del FMI, “non è quello di buttare benzina sul fuoco” ma il contrario; l’ha ricordato D’Alema nelle ultime settimane: occorre dialogare con il Governo per trovare una via d’uscita alla crisi. Per quel che riguarda l’ex sinistra radicale, è ancora impegolata nelle sue contraddizioni interne dopo la batosta elettorale e, quindi, malgrado il successo della manifestazione dell’11 ottobre, non è riuscita a prendere piede all’interno del movimento studentesco e giovanile, contentandosi di assecondare sul terreno sindacale il presunto “nuovo corso” di Epifani;

c. che oggi esiste nel mondo del lavoro una significativa pressione, una spinta parziale ma reale verso la mobilitazione, spinta che ha incontrato il movimento studentesco, il quale ha agito da cassa di risonanza delle contraddizioni sociali e politiche attuali. La combinazione di questi due elementi, da un lato e, dall’altro, l’intransigenza padronale e la sfacciataggine reazionaria del Governo hanno forzato la direzione della CGIL a rompere formalmente con la logica del dialogo nella quale si era impegnata fino ai primi di settembre, per arrivare infine alla proclamazione dello sciopero generale. La CGIL ha quindi dovuto farsi portavoce e cavalcare il malcontento presente pressoché in tutti i settori dei lavoratori per non esserne scavalcata, per evitare che essi si esprimessero in forme che sfuggissero al suo controllo.

Su un altro fronte, la stessa mobilitazione dei lavoratori della CGIL e degli studenti ha obbligato la maggioranza delle organizzazioni sindacali di base (incomprensibilmente ferme dopo lo sciopero del 17 ottobre) a dover fare i conti con l’agenda imposta alla burocrazia della CGIL.

Pensiamo però che l’elemento centrale di questa “svolta a sinistra” da parte della CGIL (che è solo formale poiché non cambia in alcun modo la sua natura di sindacato “di Stato”), che sembra accontentare i settori meno filo-Epifani (l’opposizione delle componenti di sinistra della CGIL), sia fondamentalmente legata all’insofferenza e alla pressione esistente in importanti comparti del mondo del lavoro, non solo in Italia ma anche in Europa.

Se non si vede o si sottovaluta la presenza di questa spinta, si rischia di leggere le iniziative della CGIL in modo politicista e quindi fuorviante, attribuendo ad altri fattori, presenti ma secondari, un ruolo determinante che non hanno. Questi fattori sono la posizione intransigente del Governo e il suo tentativo di isolare la CGIL tagliandola fuori dai tavoli di contrattazione; la pressione delle componenti di sinistra della CGIL (FIOM, Rete 28 aprile e Lavoro e Società), di cui la maggioranza di Epifani deve tenere conto; la pressione esercitata dalla mobilitazione del sindacalismo di base, che tuttavia, dopo l’exploit del 17 ottobre, è stata sostanzialmente alla finestra.

L’argomento – usato anche da settori del sindacalismo di base, compresi quelli che hanno deciso di non partecipare allo sciopero – che lo sciopero della CGIL risponda alla logica tutta politica di fare un favore all’opposizione di centro-sinistra è poco convincente. Abbiamo già detto che in questa fase il centro-sinistra ha deciso di non fare alcuna opposizione reale, e ben poca sponda sta dando alle lamentele e alle rivendicazioni della CGIL; e questo non solo perché nel PD convivono accanto a quella cigiellina dei DS anche le anime dei settori politici che fanno riferimento a CISL e a UIL (il che spiega la linea di complessiva equidistanza tenuta dal PD negli scontri interconfederali) ma soprattutto perché, di fronte alla prospettiva certa dell’acuirsi della crisi, c’è da aspettarsi una gestione sempre più bipartisan dei problemi sociali: tutti uniti – destra e sinistra – per far pagare la crisi a lavoratori e ceti popolari e cercare di salvaguardare la pace sociale, buttando acqua sul fuoco delle lotte.

La spinta proveniente dal mondo del lavoro è invece l’elemento qualificante per capire cosa induca la CGIL a fare quello che fa e in questa forma. Non a caso un analogo fenomeno si riscontra, in questa fase, anche in alcuni paesi europei: le principali sigle sindacali, ugualmente concertative, sono state costrette a promuovere un’ondata di mobilitazioni, come lo sciopero generale in Grecia del 23 ottobre, i ripetuti scioperi della pubblica istruzione in Francia o l’annuncio, da parte delle otto organizzazioni sindacali transalpine, di una giornata di mobilitazione contro la crisi a gennaio; lotte durissime si stanno svolgendo in Catalogna nel settore automobilistico, mentre gli studenti sono entrati in mobilitazione in Germania e in Spagna; in Germania il sindacato metalmeccanico, con un governo amico (di cui fa parte la SPD), è stato costretto a convocare uno sciopero cui hanno partecipato 500.000 operai con richieste di aumenti salariali del 8%.

La possibile ricomposizione delle varie vertenze in un unico fronte sociale diviene insomma uno spauracchio per la borghesia; di conseguenza, guardando al 12 dicembre, occorre trarre un bilancio dell’autunno per fare in modo che, a partire delle lotte in atto, si creino le condizioni per un’azione più incisiva contro Governo e Confindustria, per affrontare da una posizione più vantaggiosa l’offensiva che si profila e che sarà resa ancor più pesante dagli imperativi economici posti in essere da una crisi che va radicalizzandosi e generalizzandosi e il cui prezzo la borghesia intende scaricarci sul groppone.

Lo straordinario impatto dell’onda anomala studentesca e i suoi limiti politici

L’altra componente delle mobilitazioni, per certi versi la più dinamica, è stata il movimento studentesco, che ha occupato le prime pagine dei giornali per settimane: l’attacco ai diritti della scuola è costato moltissimo a Berlusconi in termini di consenso. Basta un unico dato per valutarne l’ampiezza: dal 10 ottobre fino a metà novembre dalle autorità sono state registrate sull’intero territorio nazionale niente meno che 650 “azioni”; e, si badi bene, non si tratta di azioni dei piccoli gruppetti dei soliti militanti politici sempre presenti negli istituti o nelle università che, anche dopo la sconfitta della lotta contro la riforma Moratti nel 2004, hanno continuato a esistere e a battersi. Stiamo parlando delle azioni portate avanti quotidianamente dagli studenti medi fino alla fine di ottobre, delle manifestazioni imponenti degli studenti del 7 e del 14 novembre, di tutte quelle iniziative in cui, al grido di “la crisi noi non la paghiamo”, il movimento studentesco è confluito in diverse occasioni con il mondo della scuola e del lavoro, in particolare (e non solo) il 17 e il 30 ottobre, per lo sciopero generale del sindacalismo di base e quello della scuola indetto dai confederali (cui pure sono stati costretti a partecipare i COBAS del comparto scuola).

L’importanza e l’estensione nazionale del movimento ha permesso inoltre di arrivare, dopo la giornata di manifestazione nazionale del 14 novembre, all’assemblea nazionale di Roma del 15 e del 16 novembre: era dal 1990, dalle assemblee di Palermo e di Firenze della Pantera contro la riforma Ruberti, che non si vedevano in Italia assemblee nazionali degli studenti.

Questo appuntamento ha avuto in sé una doppia potenzialità: da un lato, come strumento per superare i localismi, le separazioni tra le singole città e i singoli atenei; dall’altro, come possibile momento di discussione dei contenuti e delle prospettive del movimento, sia rispetto al mondo della scuola e dell’università (la questione dell’autoriforma) sia rispetto al mondo sociale in generale.

In quella occasione è stata ribadita l’esigenza di partecipare allo sciopero generale del 12 dicembre, un’esigenza alla quale già avevano fatto appello gli studenti della Sapienza occupata il 31 ottobre, chiedendo che “le sigle sindacali (confederali e di base), indipendentemente dalle loro divergenze programmatiche, [abbiano] capacità di capire quanto sta accadendo nel paese e quale domanda di rottura e di trasformazione si sta radicando ed estendendo socialmente. Capire, ma anche agire di conseguenza e questa azione non può essere che lo sciopero, generale e generalizzato”.

Riteniamo però che, per molti versi, la due giorni di Roma sia stata un’occasione sprecata. Con centinaia di studenti presenti da varie città, bisognava cogliere l’opportunità per trarre indicazioni che fossero in grado di dare una prospettiva al movimento, compiti, strategia e strumenti per mantenerlo in piedi, per alimentarlo e, se possibile, per farlo crescere ulteriormente. Rispetto a questo compito fondamentale, riteniamo che i settori che, nei fatti, hanno diretto l’assemblea nazionale non siano stati all’altezza della situazione. Vediamo perché.


Sulla questione delle modalità dello sciopero del 12 dicembre

La questione dello sciopero generale e della necessità di aprire un confronto costante con il mondo del lavoro è stato posto nei vari “workshop” (assemblee di lavoro tematiche) e rappresenta un ottimo punto di partenza, poiché pone l’accento, anche se solo embrionalmente, sul fatto che solo l’unità di classe tra studenti e lavoratori sarebbe in grado di portare avanti lotte di resistenza agli attacchi padronali e, in prospettiva, lotte di trasformazione sociale. Dopo gli anni bui di restaurazione ideologica reazionaria in salsa Fukuyama “sull’addio al proletariato” e sulla “fine della storia”, e dopo il suo contraltare ideologico “di sinistra”, nato alla fine degli Novanta all’insegna dell’“esodo” e della “moltitudine” (posizioni che, in altra forma e per altra via, postulano ugualmente la fine del proletariato, della contraddizione capitale-lavoro, dell’Imperialismo ecc.), porre questa questione ha rappresentato un momento importante di ricomposizione soggettiva del movimento studentesco, un passaggio che già aveva avuto luogo in Francia durante il movimento anti-CPE.

Nonostante l’unità di classe e, di conseguenza, l’appello unitario a scioperare siano la premessa fondamentale per la mobilitazione, la questione della loro traduzione nella costruzione di azioni di forza è altrettanto importante, a maggior ragione se si considera la natura delle direzioni dei sindacati confederali che, fino a pochi mesi fa, hanno avallato le peggiori controriforme sotto il precedente governo: dalla riforma Damiano sul Welfare al tradimento della vertenza Alitalia, mentre sono ora costrette a convocare lo sciopero generale per non essere sovrastate dalla situazione sociale generale. Tuttavia, non si è potuto discutere fino in fondo delle modalità di costruzione dello sciopero. Vediamo perché.

Perché non si è potuto discutere della strutturazione di un coordinamento nazionale?

L’assemblea nazionale non ha potuto discutere sul modo di strutturare il movimento nelle settimane successive, eppure in tanti avevano sottolineato la necessità di seguire le orme del movimento studentesco francese del 2006 che, sulla questione del CPE, era riuscito a far retrocedere il governo Chirac-Villepin-Sarkozy proprio in virtù del fatto che era riuscito a stabilizzarsi e a rafforzarsi durante quasi quattro mesi di mobilitazione. Attraverso la costruzione di un coordinamento nazionale studentesco reale e funzionante, e attraverso un collegamento e una costante unità con il mondo del lavoro, il movimento anti-CPE ha saputo durare nel tempo malgrado l’adozione della legge e la repressione (più di 4.000 arresti): per mesi, nell’ottantina di università che conta la Francia, l’unica didattica praticata è stata quella dei picchetti e delle assemblee generali che discutevano dei coordinamenti settimanali e delle modalità con le quali portare avanti le azioni di lotta.

Le due aree politiche che di fatto si sono prese l’onore (e l’onere) di dirigere l’assemblea svoltasi a Roma il 15 e il 16 novembre (ossia l’area di Uniriot/Esc – un settore dei Disobbedienti – e Sinistra Critica) hanno impedito che tale prospettiva si concretizzasse.

Innanzitutto Uniriot/Esc, facendo leva su un astratto “siamo tutti delegati”, si è rifiutata di assumere il compito di strutturare un coordinamento permanente tra gli atenei italiani. Questo rifiuto dei delegati (e del potere decisionale delle assemblee) in realtà fa il gioco di chi, dicendo di lottare contro l’università dei baroni, fa di professione il leaderino della politica studentesca, mentre, sul piano dei contenuti, vuole evitare a tutti i costi la strutturazione di un movimento studentesco saldamente unito al movimento operaio, come settore e articolazione particolare di questo; la qual cosa smentirebbe di fatto le teorie – su cui quest’area si basa – di chi da anni proclama la sparizione della “classe” in favore del “capitalismo cognitivo” e della “moltitudine”
Sinistra Critica, per non rompere il fronte che, di fatto, condivide con Uniriot/Esc, si è rifiutata di portare in assemblea, in particolare il 15 novembre, la parola d’ordine della strutturazione democratica nazionale dal basso del movimento, parola d’ordine che pure nelle settimane precedenti aveva difeso, rivendicando il “modello francese” del movimento anti-CPE (nel quale invece è stata particolarmente attiva la sua consorella, la LCR/JCR).

Questa impostazione ha di fatto gravemente condizionato la possibilità stessa di una prospettiva duratura che sapesse contrastare la tendenza al riflusso del movimento, tendenza che, almeno allo stato attuale, preme sul movimento stesso. Da parte sua, la sinistra del movimento (dal Coordinamento degli Studenti Rivoluzionari – area PCL di Ferrando – ai vari gruppi locali che hanno un forte peso nelle occupazioni a Scienze politiche a Milano, a Napoli o a Firenze) non è stata in grado di agire in quella occasione come posizione alternativa per difendere la prospettiva di un coordinamento nazionale studentesco che avrebbe potuto giocare un ruolo di enorme attrazione per i settori più avanzati della classe.

Questo limite fondamentale, che è tutto politico, ha permesso di dare un peso maggiore alla questione dell’autoriforma universitaria. Si tratta di una discussione di grande importanza nella lotta contro l’università classista al servizio del capitale e contro il discorso fintamente “riformista” della Gelmini e della Confindustria, che presentono gli studenti in lotta, nella migliore delle ipotesi, come conservatori di un ordine accademico tramontato o, nella peggiore delle ipotesi, come teppistelli da manganellare. Tuttavia questa questione, presentata nella sua versione “light” e negriana e sganciata dai passaggi politici che si pongono oggi all'ordine del giorno del movimento studentesco, oltre a essere utopica e facilmente digerita dai mass media che vogliono presentare il movimento universitario come qualcosa di profondamente “giovanile” o strettamente “studentesco”, ovviamente in chiave folkloristica, non offre lo sbocco di classe a cui tendenzialmente potrebbe portare, facendo da ponte verso quei settori ancora non mobilitati e il mondo del lavoro: l’unico modo per porre concretamente la questione è l’unità con i lavoratori; in primo luogo perché, stanti gli attuali rapporti di forza, è necessario costruire insieme ai lavoratori le condizioni per respingere al meglio l’attacco padronale a salario, scuola, sanità ecc; inoltre, la questione dell’indispensabile radicale trasformazione dell’attuale sistema educativo non può essere che parte della trasformazione dell’intera società.

Offensiva del governo, fabbriche che chiudono ma anche tanti operai in piazza. Epifani è costretto a convocare lo sciopero generale… Sarà questo “l’inverno del nostro scontento”?

Sul fronte sociale, la situazione è molto chiara nei suoi elementi-chiave ma la sua articolazione rimane molto complessa. Molto chiara nella misura in cui è ormai sotto gli occhi di qualsiasi serio analista borghese che Epifani e i suoi luogotenenti si stanno muovendo in direzione dello sciopero generale per la prima volta dal 2004, non tanto perché stizziti dagli attacchi (talvolta da veri e propri insulti) rivolti loro dal Governo o per assecondare il gioco dell’opposizione parlamentare (che, ripetiamo, è divisa sulla questione sindacale fra CISL e CGIL e fugge come la peste l’eventualità di schierarsi concretamente sulla questione sociale per non soffiare sul fuoco). La motivazione è fondamentalmente dovuta a una pressione sociale oggettiva, combinata alla radicalizzazione di alcuni conflitti che lasciano intravedere alcune potenzialità che le lotte potrebbero sviluppare nel prossimo futuro.

A questo va associato il movimento studentesco, l’Onda, che ha forzato la Direzione della CGIL a indire lo sciopero. Allo stesso tempo, questa stessa Direzione ha cercato di neutralizzare la portata dello sciopero generale procrastinandolo a metà dicembre (mentre avrebbe dovuto e tranquillamente potuto svolgersi sin da ottobre), a ridosso delle feste, per non essere costretto ad affrontare il problema di dover dar seguito all’opposizione sociale in piazza e sui luoghi di lavoro. La situazione si fa più complessa se guardiamo nello specifico le diverse categorie attualmente in lotta. Le vertenze attuali mostrano come le direzioni sindacali confederali, la CGIL in particolare, che ha operato formalmente “una svolta a sinistra”, siano costrette a promuovere mobilitazioni territoriali per opporsi ai licenziamenti (Brescia, Casale Monferrato). Al contempo, la CGIL del Pubblico Impiego chiama alla mobilitazione scaglionata regionalmente invece di organizzare un movimento unitario contro Brunetta, e fa appello allo sciopero generale nel settore dei trasporti per la terza volta in un anno (stavolta con CISL e UIL) per riaprire il giorno successivo le trattative con il padronato e le autorità. Nel caso Alitalia sta addirittura dalla parte dei crumiri e degli avvoltoi.

Ancora una volta si sostanzia l’orientamento “ambiguo” delle direzioni sindacali, che da un lato tradiscono le lotte e le seppelliscono quando è necessario e dall’altro chiamano alla mobilitazione quando, per esempio, è necessario incanalare e contenere preventivamente il malcontento diffuso.

La questione della costruzione dello sciopero dal basso, in maniera trasversale e coordinata, fra operai e studenti, immigrati, precari e disoccupati, è dunque centrale perché è l'unica condizione che renderebbe le azioni da intraprendere misure di forza realmente incisive, le più incisive possibili, e che lo sciopero sia il passaggio reale di un percorso reale.

Verso lo sciopero generale del 12 dicembre: organizziamoci dal basso e coordiniamoci per preparare al meglio lo scontro con Governo e Confindustria.

Per rompere l’attuale circolo vizioso che neutralizza anche i settori più combattivi, crediamo necessario e possibile lavorare per mettere in piedi un coordinamento nazionale di lavoratori e studenti (un coordinamento delle situazioni di lotta) basato su delegati eletti e revocabili.

Questa è secondo noi la strada da percorrere per costruire una forza reale capace di opporsi in maniera unitaria alla linea oscillante e mortifera della burocrazia sindacale e per uscire al contempo dalla logica della difesa dei propri spazi contrattuali e politici che domina l’orientamento del sindacalismo di base. Questa sarebbe la migliore garanzia per portare avanti nel miglior modo possibile la lotta contro un governo sfacciatamente reazionario e un padronato che già annuncia un milione di esuberi e di licenziamenti nei prossimi mesi. In sintesi, è il modo migliore per costruire un’opposizione di classe più ampia possibile.

Tra l’altro questa strada è l’unica in grado di non lasciare a Epifani la possibilità di rifarsi una verginità politica nei confronti di quei vasti settori del mondo del lavoro che continua a influenzare, riproponendo, in un contesto ben più cupo dal punto di vista economico, un “cofferatismo bis”, quella strategia che fra il 2001 e il 2005 è riuscita a canalizzare l’ondata di lotte per meglio svuotarle del loro contenuto vertenziale, spianando quindi la strada al governo dell’Unione ed evitando che si producesse – sulla scia delle grandi mobilitazioni sociali e politiche di quel periodo – una alternativa di classe. In questi giorni, all’interno della variegata area del “sindacalismo di base”, ci si interroga se fare lo sciopero il 12 significhi fare il gioco della CGIL. Alcuni settori hanno deciso di non farlo per questo motivo, mentre quelli che lo faranno lo faranno… senza porsi minimamente il problema che quel giorno scenderanno in piazza anche i lavoratori portati dalla CGIL; anzi, lo faranno… malgrado scenda in piazza anche la CGIL. Questo modo di pensare, che riflette un modo di essere presenti nelle mobilitazioni, crediamo sia profondamente sbagliato. Infatti, se non c’è alcun bambino da salvare (le migliaia di lavoratori che in buona fede e per effetto del malcontento diffuso scenderanno in sciopero e in piazza quel giorno) mentre si butta l’acqua sporca (la direzione politica delle lotte che, nel caso della CGIL, è funzionale al padrone), allora perché scioperare il 12 e non un altro giorno? E ancora: perché dal 17 ottobre fino alla fine di novembre nel sindacalismo di base non ci si è posti il problema di cosa fare dopo lo sciopero del 17? Delle due l’una: o si ritiene che questi mesi siano stati un fuoco di paglia (conseguenza logica: lo sciopero del 12 è per il sindacalismo di base solo uno sciopero di bandiera, cui non seguirà alcunché) oppure si è capito solo in ritardo che, oltre al problema di “non regalare gli studenti a Epifani”, ci fossero le condizioni per pensare e programmare un percorso di scioperi.

In ogni caso, scordandosi il passato, cosa farà il sindacalismo di base dopo il 12? Si attesterà sul risultato (che speriamo sia positivo) come dopo il 17 o invece, a partire da quel risultato, a partire dal malcontento diffuso, a partire dalla consapevolezza che la crisi acuirà le contraddizioni sociali già nei prossimi mesi, lavorerà per costruire quel percorso di assemblee, mobilitazioni e scioperi che avrebbe dovuto essere già avviato in vista dello sciopero del 17?

Pensare che, per evitare di fare il gioco di Epifani, basti scioperare in giorni diversi (o addirittura lo stesso giorno con un percorso diverso del corteo) è una ingenuità. Per non fare il gioco di Epifani è necessario diventare capaci di sottrarre alle direzioni sindacali la loro influenza ed egemonia sui settori di lavoratori che già si sono mobilitati o che si apprestano a mobilitarsi, anche con la CGIL. Chi dice di non voler fare il gioco della CGIL (e del centro-sinistra) non può lasciare il terreno della mobilitazione sociale alla CGIL; e non è (solo) un problema di piattaforme diverse, migliori, separate: bisogna essere in grado di guadagnare una influenza all’interno delle mobilitazioni, nelle condizioni concrete in cui si presentano, anche quando e dove le spinge la CGIL. Bisognerebbe invece partecipare ad assemblee e mobilitazioni, alle piazze e a tutto quello che si muove, portandoci dentro i propri punti di vista, le proprie critiche e i propri contenuti.

Ignorare quello che fa la CGIL, mobilitarsi parallelamente (senza che i lavoratori delle une o delle altre mobilitazioni abbiano mai la possibilità di incontrarsi) è solo un modo per attribuirsi una patente di ultrasinistra senza mettersi realmente alla prova nella mobilitazione reale e massiccia dei lavoratori, senza creare le condizioni per diventare effettivamente avanguardia interna alle lotte e contendere politicamente alla burocrazia sindacale la sua egemonia su consistenti settori della classe.

Le proposte anti-crisi della CGIL sono espressione di una politica economica basata sull’aumento del reddito e degli investimenti e in difesa dell’occupazione, da raggiungere tramite un accordo fra parti sociali; in altre parole, un accordo tra lavoratori e padronato, i cui interessi tuttavia sono del tutto inconciliabili.

Fondamentalmente si tratta di una “versione sindacale” italiana del piano difeso oltremanica da Gordon Brown. Queste proposte pretendono di dimostrare che è possibile uscire dalla crisi con una soluzione che non scontenti né padroni né operai. La CGIL traduce tutto questo nella misera rivendicazione della “detassazione” della tredicesima.

Di fronte alla crisi e alle misure anti-crisi proposte dal sindacalismo, invece, le organizzazioni operaie combattive classiste non devono e non possono accettare ulteriori tagli e ulteriori sacrifici. Devono dire che faranno di tutto per non pagare la crisi e per farla pagare ai capitalisti. Devono rivendicare, esigere e lottare per una serie di misure politiche chiare, come il ripristino della scala mobile, per fronteggiare la riduzione del potere d’acquisto e le compressioni salariali dirette e indirette, contro l’ondata di licenziamenti, per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario per lavorare tutti. Al tentativo di scaricare la prima ondata della crisi e i licenziamenti sui settori più deboli della nostra classe, quale quello degli immigrati, per i quali la perdita del posto di lavoro significa perdita del permesso di diritto al soggiorno, non basta la sospensione o l’abrogazione della Bossi-Fini ma bisogna esigere lo smantellamento dell’intero sistema di misure restrittive e razziste contro gli immigrati, varate in passato da centro-sinistra e da centro-destra, e opporre la rivendicazione del blocco delle espulsioni e la concessione automatica del permesso di soggiorno e di lavoro per chi arriva sul territorio nazionale.

Per cominciare a portare avanti questo programma d’emergenza sociale bisogna dire chiaramente che serve più di uno sciopero calato dall’alto, sia da parte del sindacalismo confederale che da quello di base che parteciperà il 12 in altre piazze. Coordinarci in assemblee continuative dal basso per discutere dell’agenda di mobilitazioni da seguire è l’unica strada precorribile per creare le condizioni politiche per uscire dal marasma attuale, senza fare il gioco del centro-sinistra.

Per far sì che il 12 dicembre sia un’ulteriore tappa sulla via di un percorso unitario, coordinato e incisivo di lotta contro il governo e il padronato

Come sottolineava Gilles Deleuze, il filosofo francese tanto amato da alcuni dei settori più negriani dell’Onda anomala studentesca, “non si ricomincia mai da capo, si ricomincia sempre dalla metà”. Ciò vuol dire, a nostro parere, che i processi dinamici come la lotta di classe ricominciano sempre partendo da un’esperienza di classe accumulata, da un livello di soggettività dato.

Al di là dell’evoluzione immediata della situazione sociale in Italia nelle prossime settimane, siamo coscienti che l’acuirsi della crisi porterà a un’esacerbazione dello scontro sia tra frazioni borghesi sia tra gli opposti fronti sociali. In questo contesto, il compito della sinistra rivoluzionaria e dei settori classisti, combattivi e antiburocratici non può che essere quello di lavorare, da qui al 12 dicembre e oltre, per offrire strumenti organizzativi e politici di lotta, autorganizzati e coordinati dal basso, strumenti in grado di difendere la soggettività e l’esperienza accumulata da parte dell’avanguardia di classe, per fare in modo che nelle prossime settimane non si ricominci da capo ma da dove si sarà stabilizzato il fronte sociale.

24 NOVEMBRE 2008

Un Afro-americano a capo della più grande potenza imperialista (05/11/08)


Un Afro-americano a capo della più grande potenza imperialista

La crisi e le guerre che hanno portato Obama alla Casa Bianca*


L’articolo che segue, scritto da una compagna dello FTQI , decidiamo di pubblicarlo perché, sebbene non rifletta una posizione condivisa su alcune delle questioni che affronta, ha comunque stimolato il confronto interno soprattutto sui passaggi che coinvolgono più direttamente l'attuale fase della crisi capitalistica e le sue ripercussioni sulla politica degli Stati e l'escalation militare. I successivi sviluppi e approfondimenti di questo confronto ci ripromettiamo di testimoniare a partire dai prossimi numeri di questo giornale.

Il 4 novembre Barack Obama è stato eletto Presidente degli Stati Uniti, con quello che comporta essere il primo Afro Americano a riuscirci. Il candidato Democratico ha ottenuto una larga vittoria (più ampia nella differenza degli elettori che nel voto popolare) sulla accoppiata Repubblicana McCain-Palin. Il suo partito ha ottenuto la maggioranza nelle due Aule del Congresso, ottenendo il miglior risultato elettorale dall’elezione di Lyndon Johnson nel 1964.

La campagna elettorale di Obama, basata su una vaga promessa di “cambiamento”, è riuscita ad entusiasmare milioni di giovani e di lavoratori con la speranza che la sua amministrazione comporti realmente un mutamento rispetto a quella di George Bush e un’inversione rispetto alla rivoluzione conservatrice degli ultimi decenni. Queste aspettative travalicano i confini statunitensi ed a livello internazionale in milioni hanno l’illusione che, sotto l’amministrazione Obama, la principale potenza imperialista attuerà una politica più “benevola” verso il resto del mondo.

Inoltre, la vittoria di Obama non è dovuta alle sue “qualità personali” o della sua “abilità di oratore”, e non è nemmeno la vittoria dell’“uguaglianza delle opportunità” o della fine del razzismo, come molta stampa liberal afferma. Piuttosto è il risultato di una situazione disastrosa nella quale si combinano il baratro di due guerre che non si possono vincere e che non sono finite, in Iraq e Afghanistan, insieme alla peggiore crisi da quella della Grande Depressione del 1930. In questo senso riporta alla memoria, con tutte le differenze del caso, il trionfo del democratico Franklin Delano Roosevelt sul rivale repubblicano Herbert Hoover alla fine del 1932, in piena crisi economica.
Obama entra in carica in un momento molto delicato per l’imperialismo statunitense. Sin dall’inizio, la sua presidenza sarà soggetta alla pressione della crisi economica. Questa si sta già manifestando come crisi sociale, con migliaia di posti di lavoro persi, con un numero crescente di famiglie che hanno perso la loro abitazione e, infine, con la sfida all’autorità statunitense nel mondo. Senza andare troppo lontani, Wall Street ha accolto la vittoria di Obama con una perdita del 5% dell’indice Dow Jones, lo stesso hanno fatto il NASDAQ e Standard and Poor’s, mostrando che quello che prevale è la crisi e la recessione piuttosto che il supposto entusiasmo per il “cambiamento”. Come alcuni analisti hanno dichiarato la vera notizia del giorno non è la sua vittoria ma la sempre più evidente conferma dell’“atterraggio forzato” dell’economia cinese, l’altro pilastro insieme al sovraconsumo nordamericano del ciclo di crescita dell’economia mondiale degli ultimi anni, che sta arrivando violentemente al suo termine.

Tra l’illusione delle masse e l’interesse dell’establishment

La vittoria di Obama rappresenta un importante cambiamento culturale e ha un forte impatto simbolico per la minoranza afroamericana e altre minoranze oppresse come i latini (che per più del 70% hanno votato per il candidato democratico), in un paese che non solo fondò originariamente la sua “grandezza” sulla schiavitù dei neri ma nel quale la discriminazione razziale fu legale in molti Stati fino a poco meno di 45 anni fa, quando si votò la Legge sui Diritti Civili, e nel quale il razzismo continua ad essere molto forte in molti settori.

Il voto massiccio per il Partito Democratico esprime in maniera distorta il rifiuto popolare delle politiche dell’era Bush, identificate con il disastro della guerra in Iraq ed un’aggressiva politica imperialista, con l’arricchimento dei banchieri, degli imprenditori e delle élite degli amministratori delle multinazionali, con il taglio delle imposte ai ricchi, in sintesi con un enorme trasferimento di risorse verso l’1% più ricco del paese. Tuttavia, il fattore determinante è stato l’esplosione della crisi finanziaria ed economica mondiale di settembre (il cosiddetto “settembre nero”), quando il suo atteggiamento responsabile contrastò con l’autismo del candidato repubblicano che negava l’esistenza stessa della crisi. Senza la crisi economica in corso probabilmente il trionfo di Obama, tenendo conto anche del disastro di Bush, forse sarebbe stato impensabile.
Anche se nel momento in cui andiamo in stampa non sono ancora disponibili le composizioni della base elettorale di ciascun partito, la distribuzione territoriale del voto mostra come il Partito Repubblicano, sebbene attraversi una crisi molto importante e una forte divisione interna che pone un cono d’ombra sopra una delle due gambe del sistema bipartitico, mantiene la sua base tradizionale negli stati del cosiddetto Profondo Sud, come l’Arizona e il Texas, negli stati rurali del centro del paese (anche se ha perso Stati chiave come Florida, Virginia, Iowa, Colorado tra quelli che erano stati vinti da Bush nel 2004). Nonostante il forte ripudio e la bassissima popolarità del governo Bush, il Partito Repubblicano ha mantenuto una significativa percentuale elettorale, rendendo chiaro nella sua campagna che esiste una destra forte nel Paese. Da parte sua, il Partito Democratico ha dominato nella costa del Pacifico, a Est e negli stati industriali, come l’Ohio, il che indica come importanti settori della classe lavoratrice, specialmente quelli iscritti ai sindacati, hanno votato per Obama.

Le aspettative popolari di “cambiamento” nel concreto significano misure per proteggere i posti di lavoro, aiuti per coloro che rischiano di perdere l’abitazione, un servizio sanitario che assicuri la copertura anche ai 43 milioni di nordamericani che attualmente non ne usufruiscono, la regolarizzazione degli immigrati, politiche contro il razzismo, aumento delle tasse per i ricchi, la fine della guerra in Iraq e un cambiamento radicale rispetto alle politiche unilaterali e militariste dell’amministrazione neoconservatrice.

Dopo il trionfo di Obama non ci sono solamente le aspettative di giovani, lavoratori, neri e latini, ma soprattutto la decisione dell’establishment della classe dominante che di fronte alla crisi e al disastro del Partito Repubblicano, da tempo ha scelto Obama come il candidato migliore per ricomporre la situazione degli Stati Uniti nel mondo e per combattere il malcontento sociale che potrebbe esplodere con l’aggravarsi della crisi e della recessione economica. Per questo le principali società di Wall Street hanno finanziato la sua campagna elettorale e tra i suoi consiglieri si trovino i più esperti politici imperialisti, per esempio Brzezinski, ideatore del supporto ai mujaheddin contro l’Unione Sovietica in Afghanistan, l’ex-Segretario di Stato di Bush, Colin Powell, che iniziò la guerra contro l’Iraq, Paul Volcker capo della Federal Reserve nel 1979, quando diede il via all’offensiva neoliberista con l’aumento dei tassi di interesse, causando una profonda recessione, e l’ex-Segretario del Tesoro di Clinton, Robert Rubin. Uno dei principali consiglieri economici di Obama è Warren Buffett, l’uomo più ricco del mondo.
Prima di insediarsi, Obama ha indicato che difenderà gli interessi della classe capitalista. Ha votato ed ha fatto azioni di lobby per il piano di garanzia di Paulson ovvero per salvare i banchieri con 700.000 milioni di dollari di denaro statale. Anche il voto democratico è stato decisivo per la sua approvazione nel Congresso contro l’opposizione della maggioranza del Partito Repubblicano al piano del suo stesso governo. Questa cifra milionaria contrasta con i 50.000 milioni che ha promesso in campana elettorale per le spese destinate alle opere pubbliche e per le spese sociali, e gli appena 10.000 milioni per coloro che hanno debiti ipotecari.
Il fatto è che, al di là dell’essere afroamericano, Obama appartiene all’elite politica che con l’alternanza di potere dei suoi due principali partiti, Repubblicano e Democratico, governa per la borghesia imperialista.

Obama e la crisi dell’egemonia degli Stati Uniti

Sul piano internazionale Obama dovrà combattere con la pesante eredità dell’amministrazione Bush e della sua “guerra preventiva” che ha portato al disastro in Iraq ed Afghanistan, due guerre che gli Stati Uniti non sono riusciti a vincere. Questo errore strategico dei neoconservatori che hanno tentato di approfittare degli attentati dell’11 settembre del 2001 per rafforzare il dominio statunitense con una politica imperialista aggressiva, facendo appello alla supremazia militare e all’unilateralismo, ha indebolito qualitativamente la posizione degli Stati Uniti. Ha dato inoltre luogo a un antiamericanismo senza precedenti principalmente in Medio Oriente, America Latina e in gran misura nella vecchia Europa ed ha facilitato l’emergere di nuovi attori politici sulla scena internazionale.

Questa situazione di debolezza è apparsa evidente durante la guerra tra Russia e Georgia, un alleato degli Stati Uniti, nella quale Bush non è riuscito a guadagnare le potenze europee alla sua linea politica. Specialmente la Germania ha privilegiato i suoi interessi nelle relazioni con la Russia, lo stesso ha fatto la Francia nonostante il filo-americanismo del suo presidente Sarkozy. Lontani dalle illusioni degli attivisti e del movimento contro la guerra, la politica estera che Obama ha pianificato nella campagna elettorale è centrata specialmente sul ritiro graduale delle truppe dall’Iraq per concentrare il potere militare in Afghanistan, dove i Talebani hanno riguadagnato terreno e il conflitto si è esteso al Pakistan, cercando di ottenere lì un trionfo imperialista.

A differenza della dura posizione di John McCain , di sostanziale continuità con la politica di Bush, Obama si è dichiarato favorevole a un dialogo “senza condizionamenti” con l’Iran per tentare di ottenere per via diplomatica che un’ala del governo sia favorevole agli interessi nordamericani. Anche se non è chiaro quale asso nella manica abbia per tentare gli iraniani, questa politica contraddice il mantenimento dell’alleanza incondizionata con Israele, che spinge per una linea più aggressiva contro il regime iraniano. Se non dovesse raggiungere un accordo con il regime degli ayatollah, la sua promessa di ritiro di truppe dall’Iraq potrebbe rimanere sospesa di fronte al vuoto che provocherebbe nella regione il ritiro delle truppe senza un chiaro accordo.
Infine, il neoeletto presidente si è espresso per un approccio più multilaterale che consenta la collaborazione con altre potenze, cercando fondamentalmente la cooperazione europea nella guerra in Afghanistan. Questione che non suscita molto favore nei governi europei nonostante il loro ingenuo entusiasmo verso il nuovo presidente eletto.

Qualunque sia l’orientamento politico che sta definendo, la complessa situazione verificherà presto la praticabilità della sua politica. La profonda crisi economica, combinata con i fallimenti militari, sta seriamente mettendo in discussione le basi del potere statunitense. Anche se non c’è una forza in grado di contendere l’egemonia agli Stati Uniti, importanti potenze regionali come la Russia o la Cina o anche i loro principali alleati, come le potenze europee, potrebbero certamente mettere in discussione i termini dell’autorità statunitense. Forse un anticipo di quello che avverrà è la freddezza con la quale il governo russo di Medveded ha accolto il trionfo di Obama, confermando la sua intenzione di posizionare missili di corto raggio sulla frontiera occidentale russa se gli Usa andranno avanti con il loro piano di installare un sistema di missili nell’Europa orientale.
In questo scenario, nel quale per la prima volta dal 1973 il mondo marcia unito verso la recessione, la cosa più probabile è una recrudescenza della concorrenza tra le compagnie capitaliste e i loro Stati, il che faciliterà lo sviluppo di conflitti regionali e aprirà un periodo di grande instabilità e tensioni tra Stati a livello internazionale.


Le prospettive dopo la vittoria di Obama


Nelle prossime settimane si vedrà quali tendenze esprimerà la composizione del gabinetto di Obama, che finora si è circondato di figure-chiave del governo di Clinton. La transizione, dall’elezione sino alla Presidenza del 20 gennaio 2009 (in realtà questo processo può durare più del periodo previsto a causa delle procedure di approvazione parlamentare di tutti i candidati), potrebbe essere una fase di grande instabilità politica, sia negli Usa sia a livello internazionale, con sfide inaspettate che metteranno alla prova il nuovo Presidente.
Ma la grande sfida per il suo stesso governo potrebbe, in questo caso, provenire dagli stessi Stati Uniti, ed è dovuta all’enormità e alla gravità della monumentale crisi economica. Presto le aspettative dei lavoratori, delle minoranze di neri e latini e dei milioni che vedono minacciata la propria sussistenza dalla crisi, entreranno in conflitto con la realtà. L’amministrazione Obama non difenderà i loro interessi ma quelli delle grandi aziende e banche imperialiste.
La maggioranza dei settori “progressisti”, che con più o meno entusiasmo hanno spinto a votare per Obama, hanno giustificato la loro posizione dicendo che il suo governo sarà più facilmente soggetto alla pressione delle lotte dei lavoratori. Roosevelt negli anni ’30, Kennedy negli anni ’60 e Obama nel 2009 confermano una volta ancora che, al di là della retorica “liberal” (o di sinistra) o delle politiche “populiste” come il New Deal, il Partito Democratico, come il Partito Repubblicano, difende gli interessi della borghesia imperialista. Basta ricordare che durante la presidenza Kennedy gli Usa hanno invaso Cuba, che il democratico Johnson iniziò la guerra in Vietnam e che proprio Roosevelt, quando la sua politica del New Deal si rivelò incapace di rivitalizzare l’economia nordamericana e si produsse una nuova crisi nel 1937, trasformò il “New Deal” nel “War Deal”. Cambiò l’orientamento economico in vista dei preparativi bellici del 1938 per contendere l’egemonia mondiale alla Germania nazista e alla Gran Bretagna. Fu questa “industria della guerra” quella che effettivamente ha permesso il recuperò dell’economia ed ha consentito agli Stati Uniti di entrare in guerra e a uscirne come unica potenza egemonica nel 1945, anche se a livello mondiale ha diviso il dominio del mondo con l’Unione Sovietica. Affermiamo questo, anche se rimane da vedere se Obama farà un grande cambiamento di direzione in politica economica nel quadro della difesa degli interessi del regime borghese imperialista. Non possiamo neanche escludere una drastica scelta protezionista, come lascia presupporre una certa retorica elettoralistica dell’ex-candidato e la maggioranza democratica nelle due camere del Congresso.
Storicamente la strategia del male minore ha giocato a favore del fatto che il Partito Democratico agisca come contenitore dei settori medi e progressisti e delle tendenze alla radicalizzione dell’avanguardia operaia, come è successo negli anni ’30 con la cooptazione da parte di Roosvelt del sindacalismo combattivo del CIO o alla fine degli anni ’60 con il movimento contro la guerra in Vietnam. Questo è stato un grande ostacolo per l’indipendenza politica dei lavoratori, che in maggioranza votano per il Partito Democratico.

La profondità della crisi economica e il nuovo periodo storico che si apre probabilmente accelereranno l’esperienza con il governo di Obama. Illusioni o aspettative frustrate possono tradursi in lotta di classe e nell’emergere di nuovi fenomeni politici, come è accaduto negli anni ’30 con l’ascesa del CIO (prima, “Comitato per l’Organizzazione Industriale” e a partire dal 1937 Congresso dell’Organizzazione Industriale) che in pochi mesi il CIO attirasse nelle sue file migliaia di lavoratori non qualificati che erano respinti dalla burocrazia sindacale dell’AFL (Federazione Americana del Lavoro). Questo fenomeno di attivismo operaio era parte di un moltiplicarsi di scioperi combattivi dei lavoratori occupati e disoccupati, come quelli degli operai della Toledo o dei Teamster di Minneapolis.

È vero che la storia non torna a ripetersi, è anche vero che siamo in una crisi di una grandezza storica simile a quella che diede luogo ai processi più acuti di radicalizzazione della classe operaia nordamericana. Nel prossimo periodo si aprirà la possibilità che la classe operaia, che fu duramente colpita dalla presidenza Reagan, e che ha sofferto dure sconfitte negli ultimi 30 anni di offensive neoliberali, nella quale la sua rappresentanza sindacale si è ridotta a solo il 12% della forza lavoro, recuperi la sua organizzazione e che si apra la possibilità che i lavoratori nordamericani e le minoranze oppresse rompano con i partiti dei propri sfruttatori.
di Claudia Cinatti
(5 novembre 2008)

* Articolo tradotto da “Estados Unidos. La crisis y las guerras llevaron al triunfo electoral de Obama”, pubblicato su La Verdad Obrera n°302, settimanale del Partido de los Trabajadores por el Socialismo dell’Argentina (www.pts.org.ar) e sulla pagina web della Frazione Trotzkista per la Quarta Internazionale (www.ft-ci.org) di cui fa parte il PTS.

Berlusconi vuole farci la guerra? (26/10/08)



Berlusconi vuole farci la guerra? La nostra risposta dovrà essere: generalizzare il movimento, estendere la lotta e unire le forze di studenti e lavoratori!
“Non pagheremo noi la vostra crisi!”; “Contro Gelmini, Brunetta, Tremonti!”. Gli slogan di questi giorni dimostrano che il movimento degli studenti ha perfettamente capito che cosa è in realtà la cosiddetta riforma Gelmini.
E’ un pezzo di una politica più globale attuata – ormai da anni - da tutti i Governi, di ogni colore. Una politica che vuole: tagliare ancora salari e pensioni; tagliare ancora i servizi pubblici (ossia il “salario indiretto”); tagliare ancora gli stipendi del pubblico impiego (con tagli a organico, riduzione stipendi, contratti precari, ecc.), mentre aumentano le voci di spesa pubblica a favore dei capitalisti (con appalti, spese militari, sovvenzioni al capitale, salvataggi alle banche, ecc.); in sostanza, la politica di privatizzare i profitti e socializzare le perdite, scaricando - ancora una volta – il peso della crisi sulle spalle dei lavoratori, occupati e non, pensionati, precari e studenti.

La riforma Gelmini però è anche uno dei tasselli di un piano più ambizioso di Governo e borghesia per approfondire l’offensiva reazionaria e l’attacco politico contro di noi. Si tratta di un attacco sferrato su vari fronti, dal pubblico impiego alla riforma contrattuale passando per un irrigidimento della politica razzista dello Stato. L’obiettivo? Dividerci, renderci più ricattabili, più sfruttabili…
Ma – come dimostrano le lotte delle scuole e università, e gli scioperi di questi giorni - è anche possibile scegliere di dire di NO. Anche altrove, in Europa, c’è chi subisce la stessa pressione e la rifiuta. L’hanno dimostrato in questi giorni i lavoratori e gli studenti greci, durante il massiccio sciopero generale del 21 ottobre. Anche in Italia crediamo necessario e possibile, se il Governo Berlusconi insiste a voler far passare tutto questo schifo, fargli pagare un salato prezzo politico.

Le manifestazioni e mobilitazioni delle ultime settimane dimostrano che siamo in tanti a essere disposti a lottare. E dimostrano anche che sono tanti invece quelli che non vogliono fare niente per unificare le vertenze in atto.
Non ci sono soldi per l’Università e i lavoratori, ma ci sono i miliardi per salvare le banche, mentre ci sono tante promesse di manganelli per chi lotta. Sfacciatamente, lo Stato “neutrale” della borghesia rivela la sua vera natura. Salva i banchieri, con l’appoggio bipartisan del centrosinistra, ma dice che le casse sono vuote per la scuola, per l’università, ecc.
Berlusconi ha dichiarato che se si proseguono le occupazioni, manderà la polizia. Ancora una volta la borghesia italiana si caratterizza, dopo Napoli, dopo Genova, per la sua intrinseca tendenza ad elevare asimmetricamente e brutalmente il livello dello scontro sociale. Le ultime dichiarazioni e raccomandazioni di Kossiga mostrano tra l’altro la perfetta continuità di questa strategia, ripresa a sua volta da Berlusconi, mentre la Gelmini afferma che non c’è niente da discutere.

Non c’è niente da discutere con la Gelmini. Difendiamo e generalizziamo il movimento.
Effettivamente, non c’è niente da discutere, c’è da lottare fino al blocco dell’applicazione della riforma, al di là dell’esito scontato del voto di mercoledì in aula. Non solo una vittoria sarebbe possibile, considerando la fase attuale, anche se sarà dura, ma rappresenterebbe una prima vittoria che favorirebbe enormemente tutte le vertenze attuali e future per affrontare, in un rapporto di forze ben diverso, le politiche della borghesia.
Bisognerebbe perciò estendere il movimento, non solo all’interno dell’università ma anche fuori. Bisognerebbe rispondere alle provocazioni del governo, che potrebbero aumentare dopo mercoledì, difendendo le occupazioni e puntando, fuori dalle università, a saldare l’unità fra studenti e lavoratori, per dire basta alle politiche reazionarie, antioperaie e razziste di Berlusconi e Marcegaglia.

Il CPE, un brutto ricordo per la borghesia francese e per Chirac-Villepin-Sarkozy…
Negli ultimi giorni, tanti hanno sottolineato che bisognerebbe lottare seguendo le orme degli studenti francesi che erano riusciti, fra febbraio e aprile 2006, a far piegare il governo Chirac-Villepin-Sarkozy, impedendo l’entrata in vigore del decreto sul CPE (in francese: “Contratto di Primo Impiego”).
Bisognerebbe però ricordare come si è svolta questa lotta. Dopo le prime manifestazioni di piazza, il movimento non solo si è esteso velocemente all’ottantina di università francesi, la maggior parte delle quali hanno cominciato ad essere occupate o bloccate. Gli studenti francesi si sono dotati di un Coordinamento nazionale, che si riuniva ogni settimana, basato su delegati eletti nelle assemblee generali di università in cui tutti gli studenti in lotta decidevano dell’andamento del conflitto.
Questo ha permesso un aumento della partecipazione, coinvolgendo anche i più indecisi, e ha permesso di dare una maggiore coesione nazionale al movimento.
Per questo il movimento anti-CPE ha potuto avere un peso politico reale autonomo che né le organizzazioni istituzionali studentesche (UNEF, Cé, ecc., costretti dalla pressione dalla base a non poter “calare le braghe”) né le correnti politiche moderate che agivano al suo interno erano legittimate a rappresentare. Questo ha permesso all’avanguardia del movimento studentesco di riuscire a porre, inoltre, il problema dell’estensione del movimento e del suo collegamento con il mondo del lavoro.
Che cosa ha dunque portato il movimento anti-CPE alla vittoria? Sono state le mobilitazioni massicce di studenti e operai; è stata la pressione dal basso che ha costretto le confederazioni sindacali (CGT, FO e CFDT) a “muoversi” insieme alle manifestazioni quasi quotidiane di universitari e studenti medi in ogni città; è stato il blocco della didattica imposto direttamente dalle assemblee generali di studenti e garantito dai picchetti. Unità coi lavoratori e potere alle assemblee: ecco cosa ha costretto il governo Chirac-Villepin-Sarkozy a retrocedere.

Blocco diretto della didattica, picchetti e assemblee democratiche per andare verso un coordinamento nazionale.
Anche qua bisognerebbe fare la stessa cosa per impedire (al di là dell’esito scontato della votazione di questo mercoledì) l’entrata in vigore della riforma Gelmini.
Le assemblee di ateneo devono essere democratiche e servire a discutere delle modalità di azione e a eleggere dei delegati, con un mandato e revocabili, per mettere in piedi un coordinamento nazionale delle università e delle scuole in lotta.
Queste sarebbero le condizioni minime non solo per estendere il movimento ma anche per evitare che venga intercettato da forze moderate, partitiche e sindacali, che hanno ricevuto l’ordine di investire il movimento per provare a controllarlo, portandolo nel vicolo cieco della negoziazione.

Facciamo come in Francia nel 2006, costruiamo l’unità fra studenti e lavoratori per piegare il governo.
L’unificazione fra lavoratori e studenti che i francesi erano riusciti ad imporre alle confederazioni sindacali, rappresenta oggi in Italia una prospettiva potenzialmente ancora più raggiungibile.
Non solo l’unificazione con il popolo della scuola che lotta su altri fronti contro la riforma Gelmini dovrebbe essere un obiettivo centrale da raggiungere, partecipando a tutte le mobilitazioni e provando a dar loro una prospettiva diversa. L’ondata di mobilitazioni delle ultime settimane, a cominciare dall’eroica resistenza dei lavoratori Alitalia a settembre, dallo sciopero dal sindacalismo di base del 17 ottobre o dagli scioperi categoriali nei prossimi giorni ai quali sono stati costretti i confederali, dimostrano uno stato d’animo ben diverso rispetto al letargo al quale ci avevano costretto sotto il governo Prodi-D’Alema-Ferrero e anche rispetto ai primi mesi di governo Berlusconi.

L’ondata di mobilitazioni indica anche la potenzialità di un’unificazione di tutte le vertenze in corso, alla quale purtroppo non lavorano i sindacati. In questa lotta per l’unificazione dei conflitti in atto, chiaramente identificati dagli slogan ripresi dagli studenti contro la Gelmini, Brunetta e Tremonti, il movimento contro la riforma Gelmini potrebbe servire da collante, considerando anche l’appoggio di cui gode fra i lavoratori, siano o meno genitori. Per ottenere quest’unità, però, bisognerebbe esigere che quelle correnti politiche e quei sindacati che dicono di voler affrontare le politiche del padronato e del governo, si schierino conseguentemente sui luoghi di lavoro e di studio, con gli studenti e gli insegnanti in lotta. Non si può rivendicare il movimento anti-CPE rinnegando la sua arma centrale, l’unità fra studenti e lavoratori!

Sarebbe paradossale che proprio nel momento in cui vasti settori di lavoratori (del pubblico impiego e non solo) chiedono una mobilitazione contro il Governo (tanto da costringere le confederazioni ai prossimi scioperi del 30 ottobre e 3, 7 e 14 novembre) non ci si volesse porre il problema di unificare in una lotta generalizzata gli studenti e i lavoratori.

Come si fa a vincere se non si unificano le spinte in un unico movimento di lotta?
U Berlusconi vuole alzare il livello dello scontro? Manteniamo le occupazioni ed estendiamo il movimento, unificandolo con tutte le vertenze attuali!
U Assemblee democratiche in ogni liceo, ateneo e facoltà, lottiamo per coordinarci a livello nazionale!
U Esigiamo che tutte le organizzazioni sindacali e politiche che dicono di volersi opporre alla politica del governo e di Confindustria adottino misure di forza concrete, unificando la lotta di studenti e lavoratori, per impedire l’entrata in applicazione della riforma Gelmini. Smascheriamo chi vuole lottare a parole ma non nei fatti, esigendo azioni concrete in direzione della generalizzazione e della unificazione dei fronti di lotta!
U Facciamo venire allo scoperto chi non vuole l’autonomia del movimento e si rifiuta di costruire un coordinamento democratico dal basso degli studenti in lotta!
U Costruiamo assemblee democratiche in ogni città! Generalizzare, unire ed estendere la lotta contro Berlusconi e Marcegaglia! Uniti si vince!
U Che la crisi la paghino i capitalisti e i loro Governi, non i lavoratori e gli studenti!

Roma, 26/10/2008 – fotinprop. via Efeso 2a
COLLETTIVO COMUNISTA VIA EFESO (Roma)
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