12.1.09

Crisi governo Prodi (14/03/07)

Pantano borghese
Una chimera chiamata governabilità

“Governabilità e senso di responsabilità!”. Ecco il grido di dolore, accorato ed unanime, lanciato, in occasione della crisi (superata) del Governo Prodi, da tutta l’”Italia che conta”. Dai banchi del Parlamento, dalle comode poltrone delle più alte figure istituzionali della Nazione, dalle televisioni e dalla carta stampata, dal più accreditato fino all’ultimo degli opinionisti e, ovviamente, da tutti i membri del Governo. Tutti si sono sbracciati ad urlare che non è più accettabile, in una moderna democrazia parlamentare, che un qualunque “irresponsabile” eletto in Parlamento metta in discussione il Governo e che lo faccia, per giunta, su una “questione da nulla”, su una qualunque “missione di pace”, tra le tante, che le truppe tricolori portano in giro per il mondo. Tutti costoro dunque, vogliono convincerci che questo non è un loro problema ma un problema di tutti gli italiani. E con tutti si comprende anche quella parte proletaria fatta da milioni di lavoratori, molti dei quali disoccupati o precari o in nero, di studenti che si arrangiano per sbarcare il lunario o di pensionati sempre più sull’orlo della soglia di povertà. Peccato però che la governabilità, che altro non è se non la stabilità politica della coalizione di Governo (che abbia come riflesso un esecutivo forte), sia esattamente lo strumento necessario oggi alla grande borghesia italiana. Necessario a che cosa? A portare a compimento le cosiddette riforme strutturali, ossia, tradotto in soldoni, ad approfondire ulteriormente il taglio ai già bassi salari, alle pensioni da fame, ai servizi sociali (sanità, scuola, trasporti), e via di questo passo. Ecco che dunque dietro questa parola d’ordine, apparentemente neutra e rispondente al “comune buon senso”, si nasconde in realtà la pressante necessità di attuare, senza intoppi e limitando al massimo le mediazioni, le politiche necessarie per traghettare il grande capitale nazionale fuori dalla crisi, portandolo, attraverso un attacco complessivo alle condizioni di vita del proletariato italiano, ad essere più competitivo nella lotta internazionale per la spartizione dei profitti. Dovremmo dunque, secondo costoro, essere ben contenti di aiutare l’avversario a tenere ben salda nella mano la pistola colla quale ci sparerà. Questo Governo, così come quelli che l’hanno preceduto, è il Governo del nostro nemico di classe. Malgrado le differenze di tattica e di alleanze sociali riscontrabili tra le due opposte coalizioni, anche il centrosinistra porta avanti una politica che è, nelle sue linee fondamentali, quella richiesta dai settori più concentrati del capitale. Lo fa, a giudizio della Confindustria che gli ha dato la fiducia nella ultima tornata elettorale, ancora meglio del precedente governo, cioè più “onestamente”, con maggiore efficacia e soprattutto con la garanzia di un controllo molto più forte sul movimento operaio e il mondo del lavoro in generale, attuato attraverso le direzioni sindacali e i partiti della sinistra parlamentare. Quando di fronte alle politiche antiproletarie portate avanti dal Governo Prodi ci si fa condizionare dallo spauracchio del ritorno di Berlusconi, agitato ad arte, ci si pone dunque da soli nel vicolo cieco di una falsa alternativa, la quale, proprio in quanto falsa, non può offrire reali soluzioni e dunque paralizza necessariamente le capacità di reazione del proletariato. Maggioranza risicata e debolezza relativa della borghesia italiana Lo scivolone di D’Alema al Senato ha messo in luce, indipendentemente dal suo carattere più o meno accidentale, ancora una volta alcuni aspetti della storica debolezza della grande borghesia italiana. Se il risultato della riconferma di Prodi è una blindatura del suo programma anti-popolare e anti-operaio ed un ricompattamento della maggioranza leggermente allargata, il prezzo che il Governo deve pagare è quello di aver lasciato, ancora una volta, intravedere questa sua debolezza. La scarsa maggioranza dell’Unione al Senato rappresenta un grave problema per i settori più concentrati del capitale italiano che hanno affidato a Prodi l’ambizioso compito del “risanamento strutturale” del capitalismo italiano. Questo progetto non comprende soltanto un ulteriore giro di vite contro i lavoratori, ma anche una profonda ristrutturazione dei settori subalterni della stessa borghesia, di intere frazioni dell’apparato produttivo che Confindustria pretende di ristrutturare complessivamente per aspirare a rilanciare il “sistema Italia” sullo scenario europeo e mondiale. Si tratta in sostanza di portare a compimento l’attacco ai settori proletari, e di ridurre al contempo anche gli spazi economici (e quindi politici) dei settori della piccola borghesia e degli strati improduttivi, favorendo il processo di centralizzazione e concentrazione della struttura capitalistica italiana. Malgrado una campagna mass-mediatica a favore di Prodi condotta da quella che la cosiddetta sinistra radicale definisce “borghesia illuminata”, Confindustria non è riuscita ad esercitare una egemonia sufficiente a portare al Governo una Unione forte. Ancora una volta la borghesia italiana dimostra di non riuscire a trovare, ad anni di
distanza dalla rottura dell’equilibrio politico e sociale della prima repubblica (frutto di uno scontro interborghese senza pietà), un nuovo blocco sociale ed un assetto politico ed istituzionale adeguato a questi compiti. In questo senso questa crisi di governo, in quanto risultato di un equilibrio politico precario, è l’ennesimo sintomo di questa debolezza strutturale della grande borghesia italiana. Una debolezza relativa, da misurarsi nel confronto con gli altri paesi imperialistici. Il logoramento dei blocchi sociali dovuto al persistere di una crisi storica dell’accumulazione capitalistica; il peso abnorme (confrontato con le altre potenze imperialistiche) e lo scollamento di settori rilevanti del piccolo e medio capitale dalla grande industria e dall’alta finanza (culminato con il velleitario tentativo di giocare in proprio attraverso la nascita della Lega Nord); il venir meno delle rendite di posizione sul mercato mondiale, a seguito della dimensione internazionale della crisi stessa, la dissoluzione degli equilibri di Yalta e, poi, degli assetti politici interni su cui il potere borghese si era adagiato per quasi mezzo secolo. Questi sono gli elementi che in Italia, da latenti, sono improvvisamente deflagrati grazie al catalizzatore di tangentopoli; che hanno fatto esplodere la crisi degli equilibri politici che, per le caratteristiche del potere in Italia (ruolo di controllo sociale e politico svolto molto di più dagli apparati dei partiti di massa che non dalle istituzioni), è divenuta una lacerante crisi istituzionale, tuttora irrisolta. A dispetto di una politica sostanzialmente bipartizan su tutte le questioni essenziali (dalla politica estera a quella economico-sociale), la borghesia italiana non riesce – per ora e, ci verrebbe da aggiungere, per nostra fortuna - a trovare una linea efficace di mediazione dei propri interessi e di espressione di una stabile leadership politica, che le consentano di raggiungere i propri obiettivi. Obiettivi, come detto, nefasti per il proletariato italiano. Una finta opposizione è bastata a far scivolare il Governo Le recenti peripezie del Governo Prodi al Senato sono servite a chiarire ulteriormente il ruolo della sinistra della coalizione e, al suo interno, dei settori più radicali. Dopo che nella imponente manifestazione del 17 febbraio contro la base USA di Vicenza si sono visti sfilare nel corteo anche tanti parlamentari “radicali” del centrosinistra, prima il voto in favore dell’ormai famosa “relazione D’Alema”, poi la fiducia al governo “senza se e senza ma”, confermano appieno che i vari Grassi, Franca Rame, Paolo Cento e compagnia bella, alla fin fine hanno chinato la testa, voltando le spalle alle ragioni del movimento. Un movimento che le loro organizzazioni politiche (PRC, PdCI, Verdi e sinistra DS) e sindacali (settori della CGIL) tentano di controllare e di canalizzare. Per quanto riguarda il voto sulla “relazione D’Alema” di politica estera, sono state davvero emblematiche ed “illuminanti” le motivazioni politiche date per l’occasione dai due “dissidenti”, Rossi e Turigliatto, i quali, peraltro, in passato avevano votato senza “rimorsi di coscienza” il rifinanziamento della missione in Afghanistan e la Finanziaria lacrime e sangue di Padoa Schioppa. Il primo ha apertamente dichiarato che avrebbe senz’altro votato a favore della relazione di D’Alema nel caso in cui fosse stata posto il vincolo della fiducia, poiché quello di Prodi è il suo governo. Il secondo invece ha tenuto a sottolineare che se D’Alema avesse fatto una minima “concessione” nel suo discorso alla questione posta dalla manifestazione di Vicenza, avrebbe certamente votato a favore (come se fosse una questione di parole e non di fatti). Rossi ha poi motivato il suo voto contrario in nome del rispetto del programma elettorale dell’Unione (sic!), mentre Turigliatto e tutta la sua corrente di Erre/Sinistra Critica (che finora ha sostenuto la maggioranza bertinottiana) ha giustificato il suo voto contrario in nome del programma “storico” del PRC, cioè un programma basato strategicamente, sin dall’inizio, sulla collaborazione (più o meno “dinamica” per riprendere i termini bertinottiani) con la borghesia italiana. La prova del nove si è avuta col prosieguo naturale della vicenda, ossia con la fiducia al Governo Prodi espressa in modo compatto in Camera e Senato, anche da parte degli stessi due senatori dissidenti; drammatica dimostrazione che non esiste oggi, né a livello organizzato, né a livello di singoli parlamentari neanche un embrione di opposizione reale alle politiche della grande borghesia. Il timido NO espresso dai dissidenti, subito rientrato, è senza dubbio stato frutto anche dell’effetto emotivo delle grande mobilitazione della manifestazione di Vicenza. Ma chi sosteneva che, dopo lo scivolone, Prodi non poteva non ascoltare “le ragioni dei movimenti” ( sull’ipotesi che su un governo di centrosinistra si può sempre cercare di ottenere qualcosa attraverso luna “sana” pressione) è stato ancora una volta servito. La politica del meno peggio, usata come giustificazione mistificatoria contro il proletariato per ottenerne l’appoggio, ha ottenuto, come unico effetto tangibile, quello di “normalizzare” le formazioni politiche della sinistra della coalizione, PRC in testa; il culmine lo si è avuto nella tragicomica, virulenta campagna contro i cosiddetti “dissidenti” che Rifondazione ha scatenato al suo interno, culminata con l’allontanamento persino del pallido Turigliatto, in un clima di caccia alla streghe degno delle migliori purghe staliniane. L’unica opposizione possibile a questo governo guerrafondaio e anti-operaio è pensabile solo in termini di potenzialità di lotta dei lavoratori italiani e questo non è certo surrogabile da giochetti parlamentari di una finta opposizione; la quale, se anche si materializza in una formulazione più da “alternativa di sinistra”, è per sua natura incapace di esprimere un progetto di classe alternativo a quello della borghesia.
Guerra ed attacco ai salari: l’asse strategico della politica del capitale imperialista italiano La prosopopea con cui anche PRC e PdCI hanno liquidato la questione dell’Afghanistan come “una questione di lana caprina”, di scarso interesse e, tanto meno, riguardante gli interessi reali dei lavoratori italiani, è profondamente rivelatrice della natura di classe di queste forze. La politica estera è ovviamente parte integrante, essenziale, di ogni programma di Governo. Quello di Prodi, con le sue 25 missioni militari all’estero, è il programma di una moderna borghesia imperialista. La sua politica estera non è altro che l’altra faccia della medaglia della sua politica interna: stangate ai lavoratori attuate grazie all’attiva collaborazione delle direzioni delle principali organizzazioni sindacali. Per Confindustria, l’obiettivo dichiarato è quello di aumentare la produttività relativa del lavoro e mantenere il margine di profitto per il capitale italiano. Questo passa attraverso un processo di risanamento del tessuto produttivo italiano che passa si per il meccanismo ben oliata e collaudato della compressione salariale, ma anche (e forse soprattutto) anche per una ristrutturazione drastica anche per settori subalterni del capitale; un fronte sul quale – come detto - la grande borghesia è molto meno avanzata. Specularmente, quest’offensiva ha anche la sua traduzione sul piano esterno. L’aggressività sempre più feroce dell’imperialismo italiano si traduce in un’ aspra lotta per la spartizione del mercato mondiale e quindi in una sensibile dilatazione delle iniziative diplomatiche e militari all’estero, in un quadro più o meno “multilaterale” e più o meno “europeista” (senza che questi elementi tolgano niente al carattere imperialista di queste operazioni). Questo è quindi l’assetto esterno di una stessa politica mirata a difendere e preservare le migliori condizioni possibili per gli interessi strategici del capitale della settima potenza mondiale sullo scacchiere internazionale. Questi due fronti, quello interno e quello esterno, sono i due assi intorno ai quali gira la politica della borghesia. Di conseguenza ogni tentativo di riorganizzare un’opposizione reale deve essere strutturato attorno a questi due assi. Più gli interessi dell’imperialismo italiano sono messi in discussione e contrastati a livello estero, più le condizioni di lotta in Italia saranno potenzialmente favorevoli. La nostra lotta non può non farsi su questi due piani, non solo perché essi si rafforzano a vicenda, ma proprio perché ciascuno di essi non può esistere senza l’altro. Non può esserci una reale opposizione alla politica interna di lacrime e sangue senza un’opposizione alla politica estera imperialista della borghesia italiana e viceversa. Ogni colpo portato contro l’imperialismo italiano favorisce la difesa delle proprie condizioni di lavoratori, così come la lotta di classe dentro le potenze imperialiste aiuta i popoli oppressi dall’imperialismo nella loro lotta per la propria emancipazione. Quale opposizione ai governi della borghesia? Non bisogna cadere nell’errore di sopravvalutare o di concepire meccanicamente la debolezza strutturale e politica della borghesia italiana. Quanto maggiore è la debolezza del nostro nemico e dei suoi Governi (siano essi di centro sinistra o di centro destra) tanto più favorevoli sono le condizioni e tanto maggiori sono gli spazi che possono aprirsi per la difesa dei nostri interessi. Ma questo non significa affatto che la debolezza della borghesia implica necessariamente un rafforzamento delle proletariato. Questa è una possibilità che va tradotta in realtà attraverso degli appropriati passaggi politici. Se possiamo trarre una lezione della vicende dei movimenti sociali ed operai degli scorsi anni, alla base dei quali esisteva la forte volontà di contrastare la politica estera ed interna del precedente governo di centro destra, questa sta certamente nel fatto che non basta l’ampiezza delle mobilitazioni per “vincere”, o anche solo per invertire la tendenza sfavorevole dei rapporti di forza. Il movimento è condannato alla sconfitta ed al riflusso se non si pone il problema di lavorare per l’unificazione delle varie mobilitazioni (NO TAV, NO Dal Molin, no inceneritori, così come lotte più spiccatamente operaie, come quella degli auto-ferro-tranvieri, Melfi…) in una unica e complessiva opposizione, a 360 gradi, alla politica della borghesia, che riesca ad esprimere una posizione politica autonoma, indipendente e quindi di classe ed internazionalista. I passaggi concreti di questo percorso (senza volerne immaginare a tavolino le forme) implicano una compenetrazione tra le lotte dei movimenti e le lotte dei lavoratori, un sforzo teso a collegare i fronti di lotta aperti e che fatalmente si apriranno sempre più frequentemente; la riappropriazione e l’estensione di metodi di difesa propri della nostra classe, dai picchetti agli scioperi, dalle casse di resistenza ai consigli di fabbrica, che vadano al di là del puro movimento di opinione, ma che siano realmente incisivi sull’economia reale e sulla legislazione. È proprio questa prospettiva d’intervento della classe come tale che sindacati istituzionali e gli apparati dei partiti di sinistra tentano di scongiurare, ivi comprese le fazioni che mediaticamente vengono spacciate per irriducibili e radicali. Questo corposo apparato costituisce un estremo baluardo per bloccare concretamente la possibilità di costruire quest’opposizione di classe alla guerra imperialista e alle politiche antioperaie, dimostrando quotidianamente la sua capacità di divisione e canalizzazione in forme non incisive delle lotte dei lavoratori e di
quelle del movimento; una preziosa collaborazione che consente poi di “passare all’incasso” presso i vari organismi dirigenziali. Non a caso queste forze lavorano sistematicamente per allontanare qualunque spettro di un uso reale dell’arma dello sciopero generale coordinato; uno strumento prezioso per creare il rapporto di forza necessario per imporre le nostre rivendicazioni, da NO al Dal Molin alla lotta contro la riforma delle pensioni passando alla questione del ritiro di tutte le missioni italiane all’estero. In questa prospettiva crediamo sia necessario come prima necessità rompere con i settarismi ed i localismi per puntare all’unità delle lotte costruita sul merito dei contenuti e dei problemi posti dalle lotte stesse; una unità costruita partendo dal basso, dalle lotte reali dei lavoratori, disoccupati e studenti, italiani e immigrati, e rompendo gli angusti e sterili steccati delle strutture di appartenenza. La via maestra che porti a questo può essere solo quella di porre in maniera forte il problema della conseguenzialità nella prassi delle posizioni di principio, conseguenzialità troppo spesso tradita e sacrificata sull’altare delle logiche di compatibilità. È questa la prospettiva che andrebbe difesa in tutti i movimenti che sorgono e che si scontrano contro la politica del governo Prodi. Questa è la politica che bisognerebbe portare avanti per cominciare a fare coincidere le potenzialità oggettive della conflittualità sociale con un’adeguata soggettività di classe da ricostruire. La tattica che il governo Prodi va difeso perché meno peggio della destra di Berlusconi deve ormai essere archiviata come mortificante le legittime aspirazioni dei lavoratori di scrollarsi dal collo le proprie sanguisughe (e, ci verrebbe da aggiungere, come mortificante dell’umano intelletto tout-court). Ci rifiutiamo di fare da spalla a questa finta alternativa. Oggi come ieri, la difesa dei nostri interessi e la conquista di migliori condizioni materiali di esistenza è un percorso che si sviluppa attraverso una lotta chiara e complessiva contro i governi, espressioni sul terreno politico degli interessi economici della borghesia nazionale. E’ innegabile che a livello internazionale, la nostra classe ha cominciato a riprendere il camino della mobilitazione. Questo processo si è tradotto, anche in Italia, in una parziale ripresa delle lotte, alle quali, per ora, non ha corrisposto un adeguato livello di soggettività politica. L’esigenza di discutere sul come costruire gli strumenti politici che ci permettano di strutturare l’opposizione di classe ed internazionalista ai governi della borghesia è sempre più urgente. Questa è la prospettiva a cui vogliamo contribuire e su cui ci vogliamo spendere. Contro tutti i governi della borghesia, di centro destra o di centro sinistra, l’unica opposizione è quella di classe, operaia ed internazionalista!

Collettivo internazionalista di Napoli (kollintern@gmail.com) Corrispondenze Metropolitane – Roma (cmetropolitane@yahoo.it) GCR – Gruppo Comunista Rivoluzionario (lav_com@tin.it) Compagne e Compagni via Efeso (www.viaefeso.org)

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