12.1.09

Protocollo Damiano (dic. 2007)

CONTRO IL PROTOCOLLO DAMIANO,
CONTRO LA FINANZIARIA LACRIME E SANGUE,
CONTRO TUTTI GLI ATTACCHI ANTIPROLETARI E ANTIPOPOLARI DEL GOVERNO PRODI-D’ALEMA-BERTINOTTI,

COSTRUIAMO DAL BASSO L’OPPOSIZIONE DI CLASSE

Continuano a piovere gli attacchi del Governo amico… di Montezemolo e soci. È in corso d’opera, da parte delle Camere, il varo della Finanziaria “lacrime e sangue”, che si aggiunge all’infame protocollo Damiano siglato lo scorso 23 luglio tra CGIL-CISL-UIL-UGL, Confindustria e Governo su pensioni e riforma del Welfare.
Entrambe queste misure si ricollegano al quadro più generale di attacchi e di “controriforme” che peggiorano ulteriormente le condizioni di vita e di lavoro della nostra classe, e questo in piena coerenza con tutta la politica del Governo, che porta avanti le sue politiche di guerra e di penetrazione e occupazione imperialista (in Libano come in Afghanistan e nei Balcani), copre la devastazione ambientale e dichiara aperta la caccia all’immigrato (pacchetto sicurezza e simili e campagna mass-mediatica contro gli immigrati), lasciando ancora più spazio alle squadre fasciste che operano nei nostri quartieri.
Le morti bianche sul lavoro, con l’incendio criminale alla ThyssenKrupp di Torino qualche giorno fa; l’assunzione diretta da parte dello Stato maggiore italiano della direzione delle operazioni militari in Afghanistan (dovei le truppe straniere d’occupazione stuprano e incendiano i villaggi sospettati di appoggiare la resistenza); i raid razzisti a colpi di molotov contro le baraccopoli nelle quali devono vivere Rom e rumeni alla ricerca di un futuro un po’ più decente, (mentre la Romania è “colonizzata” dalle imprese italiane): ecco tre aspetti della politica incendiaria del capitale italiano, al servizio del quale sta il governo Prodi-D’Alema-Bertinotti.
La borghesia e i suoi alleati non perdono tempo. Com’è ovvio, in mancanza di una chiara opposizione di classe alla sua politica nelle piazze e nelle fabbriche, Prodi continua a reggere al di là delle previsioni giornalistiche, dei discorsi populisti del centro-destra e delle “bizze” dei suoi alleati centristi nella coalizione. Tutti sanno che sta facendo un buon lavoro contro di noi… Questo non vuol dire però che i rappresentanti politici della borghesia (di destra e di sinistra) non si stiano organizzando per il dopo Prodi, quando vorranno verosimilmente accelerare ulteriormente il ritmo e l’intensità degli attacchi. Questo richiede governi borghesi più stabili. Centro-sinistra e centro-destra stanno quindi aprendo delle trattative per mettere in piedi una nuova riforma elettorale che garantirebbe una forza e una centralizzazione maggiore dei poteri ai prossimi governi confindustriali (sia nel caso di un prossimo governo Veltroni sia in quello di un Governo di centro-destra) che renderebbe più efficace la loro politica antiproletaria e imperialista. PRC, PdCI, SD e Verdi con il percorso della “Cosa Rossa” provano a organizzare una “stampella di sinistra” più solida sia per il governo attuale sia per i futuri governi di centrosinistra; questo non solo per salvaguardare il proprio peso politico-elettorale ma anche per diventare uno strumento più funzionale ai compiti politici imposti dalla nuova fase e per e più efficace per meglio controllare le spinte proletarie e canalizzare il malcontento.
Cresce inoltre nel paese un preoccupante clima di xenofobia e razzismo promosso direttamente dai media e dal Governo. La burocrazia sindacale nel frattempo fa di tutto per isolare e atomizzare le lotte.
Ma cosa manca per cominciare a contrastare sul serio la politica di Confindustria e del suo Governo e strappare alcune prime vittorie che ci permettano anzitutto di difenderci e, in prospettiva, di contrattaccare? Non è certo solo una questione di numeri, poiché siamo stati in tanti a esprimere, in una maniera o nell’altra, la nostra opposizione nei confronti del governo, anche durante l’autunno.


Il referendum truffa del 8-10 novembre e la burocrazia sindacale
I sindacati confederali, per poter dire che l’accordo del 23 luglio non è stata una stangata imposta dall’alto ma un accordo voluto dai lavoratori, hanno indetto un referendum-truffa che è stato completamente falsato a monte e che ha avuto un risultato scontato. I firmatari si sono dopo affrettati ad affermare la falsità che i lavoratori nel complesso si erano pronunciati e avevano responsabilmente accettato l’accordo. Ma la realtà è ben diversa. Malgrado le evidenti falsificazioni dei risultati e i trucchi usati, i settori più coscienti e protagonisti delle lotte, assieme ad almeno un milione di lavoratori e lavoratrici (tra quelli consultati, che sono solo una parte del tutto), hanno detto “no” al protocollo: da Mirafiori, Atesia, Melfi, Zanussi, Ferrari, Fiat Pomigliano e tanti altri è venuta la chiara indicazione della possibilità di costruire un reale percorso di difesa attraverso la lotta.

Lo sciopero generale del sindacalismo di base del 9 novembre: perché uno sciopero così tardivo e senza un’unica manifestazione nazionale?
Il sindacalismo di base è stato l’unico settore sindacale a proclamare uno sciopero contro il protocollo e la politica del Governo. Ma questo sciopero è stato programmato in maniera tardiva rispetto alla tempistica dell’adozione del protocollo e rispetto ai tempi della politica governista: è evidente che la scelta di convocarlo quattro mesi dopo la firma dell’accordo e un mese dopo il referendum-truffa, scegliendo per di più di non far convergere le forze in un’unica manifestazione nazionale, ha significato depotenziare lo sciopero. Questo “ritardo” non solo ha permesso ai sindacati confederali “pro-confindustriali” di organizzare “indisturbati” la loro consultazione truffaldina ma ha anche spalancato uno spazio ai partiti della sinistra “radicale” che stanno al Governo per organizzare il 20 ottobre una manifestazione che fungesse da parata para-governista per canalizzare il malcontento esistente in tanti settori popolari e proletari.

Sciopero calato dall’alto o costruito dal basso tramite comitati unitari e intercategoriali?
Infine, per massimizzarne la portata, lo sciopero del 9 avrebbe dovuto essere costruito dal basso, attraverso assemblee che partissero dai luoghi di lavoro, e poi nei luoghi di studio e nei territori. Per fare questo il sindacalismo di base avrebbe dovuto necessariamente, per motivi generali ma anche in considerazione dei limiti di ciascuna delle sue organizzazioni, cercare l’iniziativa unitaria, per raccogliere sui posti di lavoro la massima e la più capillare presenza possibile. Questo percorso non solo avrebbe dimostrato la volontà di rompere le divisioni fra lavoratore con contratto a tempo indeterminato, precari, disoccupati, futuri lavoratori, italiani e immigrati ma avrebbe anche indicato la chiara determinazione ad andare oltre le differenze politiche e sindacali all’interno dell’avanguardia per costruire un polo d’opposizione di classe al Governo dei padroni. Se questo non è stato fatto (e tutti i militanti del sindacalismo di base lo hanno visto coi loro occhi) e, anzi, non si è riusciti neanche ottenere un manifesto o un volantino unitario nazionale del sindacalismo di base, significa che irresponsabilmente è stata fatta prevalere la logica miope degli interessi di bottega sull’esigenza imprescindibile della ricomposizione di classe.

Perché il sindacalismo di base, nel momento in cui lanciava la parola d’ordine dello sciopero, non ha inchiodato alle loro responsabilità tutte quelle forze sindacali le quali, mentre si esprimevano (a parole) contro la firma del protocollo, non sono state conseguenti, evitando accuratamente di passare dalle parole ai fatti e di chiamare i lavoratori e le lavoratrici alla lotta?
L’accordo di luglio ha inoltre suscitato prese di posizioni (e reazioni all’interno) di settori anche importanti del sindacalismo confederale (soprattutto FIOM, Lavoro e Società, Rete 28 aprile, UILM Piemonte ecc.). Le direzioni di questi settori, di fronte all’ostilità percettibile in tante fabbriche al protocollo Damiano e alla politica del governo (e anche per equilibri politici interni), si sono riposizionati preventivamente, portati dall’evolversi della situazione a esprimere, almeno formalmente, il loro dissenso rispetto al protocollo.
Se – come avrebbe dovuto essere e come era stato anche dichiarato – lo sciopero del 9 avrebbe dovuto costituire un passaggio di lotta il più vasto, unitario e incisivo possibile, sarebbe stato compito delle direzioni del sindacalismo di base (promotori dello sciopero) mettere questi settori del sindacalismo confederale di fronte alle loro responsabilità, esigendo da essi di passare dalle parole alla lotta concreta e, quindi, di costruire e partecipare unitariamente allo sciopero. Rinaldini e Cremaschi, quando si è trattato di passare a misure di forza reali (lo sciopero del 9), si sono nascosti dietro il rispetto della “disciplina sindacale” mentre, quando si è trattato di partecipare alla manifestazione filo-governista del 20 ottobre (anche questo contro il veto di Epifani e della CGIL nazionale), non hanno invece esitato a infrangere i diktat di Epifani.
Di fronte al comportamento opportunista di queste direzioni sindacali, il sindacalismo di base, promotore dello sciopero del 9, ha ritenuto di potersi “accontentare” di queste giustificazioni e ha ritenuto che fosse meglio far finta di non vedere. Meglio salvare i rapporti politici, anche se a scapito – diciamo noi – della chiarezza e, quindi, della lotta stessa, come dimostra l’incapacità di fare dello sciopero del 9 qualcosa che andasse oltre alla iniziativa rituale e avviasse un reale percorso di lotta a partire dai posti di lavoro. Prodi e Damiano se fossero signori dovrebbero ringraziare…

Oltre che nella costruzione dello sciopero, le inconseguenze del sindacalismo di base sono emerse anche nei contenuti, concependo di fatto lo sciopero come uno strumento per fare pressione da sinistra sul Governo (dimostrando con ciò di avere una prospettiva politica assolutamente errata, di tipo riformista istituzionale).
La giornata del 9 avrebbe potuto comunque strutturare e organizzare, come primo passaggio di un percorso da costruire sui posti di lavoro, la rabbia espressa da alcuni settori di classe nei confronti del governo Prodi, attraverso il quale la borghesia italiana è riuscita a portare in porto molti dei suoi obiettivi di riforme antiproletarie. Lungi da ciò, i promotori dello sciopero hanno prodotto una piattaforma e delle manifestazioni prive di un taglio chiaramente antigovernativo, al di là di casi specifici, quale ad esempio la manifestazione regionale di Napoli, in cui un settore di compagni è riuscito a imporre che la giornata si svolgesse sotto il segno del “contro il governo Prodi”.
I leader del sindacalismo di base, nei comizi e nelle dichiarazioni a televisioni e giornali, oltre a esprimere soddisfazione per la notevole riuscita della giornata di sciopero… a pochi giorni delle elezioni RSU (!!!), hanno di fatto chiesto al governo e ai loro amici di “sinistra” che stanno in Parlamento di tener conto del successo della giornata quando avrebbero dovuto discutere della Finanziaria e del Protocollo in aula. Ma come si fa a continuare a far credere che il governo Prodi-D’Alema-Bertinotti, il governo scelto direttamente da Montezemolo prima delle elezioni del maggio dell’anno scorso proprio perché capace di gestire meglio della destra gli affari della borghesia italiana, possa essere spostato a sinistra? Il voto in Parlamento ha dimostrato per l’ennesima volta che questa è un’utopia. Se è chiaro che il potenziale di lotta dei lavoratori è frenato dalla burocrazia sindacale confederale, sembra che anche il sindacalismo di base (nel suo complesso) sia nei fatti portato ad agire in ultima istanza come costola di sinistra del governo nelle piazze.

Perché non si è fatta la manifestazione contro la politica del Governo prevista per il 24 novembre? Si è dovuta sacrificare la necessità di una manifestazione nazionale contro il Governo dei padroni per rincorrere le componenti più moderate del cartello di forze sindacali e politiche costituitosi con l’assemblea del 12 settembre a Roma.
Non è quindi un caso se è stata annullata la manifestazione nazionale del 24 novembre contro le politiche del governo di cui si era tanto discusso. Malgrado tutte le timidezze (e il ritardo, anche nei contenuti) di cui era figlia, questa manifestazione è stata sacrificata sull’altare della ricomposizione del dialogo con la sinistra di governo, prendendo lo spunto dal successo della manifestazione filo-governista PRC-PdCI del 20 ottobre, a cui i promotori del 9 avevano appunto lasciato spazio. Siamo consapevoli che, se fosse stata fatta, molti vi avrebbero partecipato con intenzioni tutt’altro che anti-governative ma il contesto da cui nasceva, le forze partecipanti e il carattere nazionale l’avrebbero (probabilmente) resa nei fatti una manifestazione contro il governo di centrosinistra.
Alcuni si sono dunque schierati prima del 20 contro questa manifestazione. È stato il caso della direzione del SdL, che invece ha poi partecipato alla manifestazione del 20 e che oggi sventola proposte di leggi di iniziativa popolare e referendum per “abolire la precarietà”… È stato il caso di alcuni settori degli ex disobbedienti, alcuni dei quali non per una coincidenza abbiamo poi ritrovato al fianco di Giordano e Vendola alla Fiera di Roma in occasione della nascita della “Cosa Rossa”. È anche stato il caso dei disobeddienti del Nordest (spesso eletti a livello amministrativo nelle liste di quel centrosinistra che oggi sta al governo), i quali non volevano che una manifestazione nazionale “indebolisse” le manifestazioni di Genova del 17 novembre e di Vicenza del 15 dicembre. Una posizione di fatto contro la manifestazione ha assunto anche Sinistra Critica, uno dei principali esponenti della quale, il senatore Turigliatto, continua ad astenersi al Senato invece di votare contro la maggioranza di governo.
Tuttavia è chiaro che, lungi dall’indebolire i successivi passaggi di piazza (Genova e Vicenza, per esempio), una manifestazione nazionale, che sarebbe stata nei fatti il prosieguo naturale dello sciopero del 9, li avrebbe rafforzati e resi più incisivi, contribuendo potenzialmente a fare chiarezza e a isolare politicamente chi, come le varie componenti della Cosa Rossa con la sua politica nazionale di stampella del Governo, lavora nei fatti per indebolire anche tali scadenze specifiche.
Non ci sarà infatti mai giustizia per Carlo Giuliani con un governo di centrosinistra che ha concesso promozioni ai torturatori della Diaz… Non ci sarà mai verità su Genova con manifestazioni a braccetto con chi sta al governo oggi come a Napoli nel 2001, copre le missioni militari imperialiste e manda le squadracce di sbirri contro gli immigrati… A Vicenza la base si bloccherà non se e grazie al fatto che i Vicentini manifesteranno assieme al “popolo della pace” per far sentire la voce dei “cittadini” espropriati della democrazia dalla cattiva politica, ma se questa lotta si salderà e sarà fatta vivere dentro la classe lavoratrice, se i lavoratori e le lavoratrici riusciranno a bloccare, con manifestazioni, scioperi, lotte, la macchina capitalistica che partorisce cantieri inutili, devastazione ambientale e guerre coloniali.
In ogni caso, visti gli esiti del 20 ottobre (peraltro enfatizzati ad arte da tutta la stampa in funzione di contenimento della spinta antigovernativa), RdB, CUB e Cobas, che invece spingevano per la manifestazione (anche se l’avrebbero costruita come hanno fatto con lo sciopero del 9) hanno finito per rinunciare anche loro, appiattendosi sulle posizioni dell’ala più moderata.
Chiudendo frettolosamente la tappa che era culminata con lo sciopero del 9 e rinunciando alla manifestazione del 24 che avrebbe dato seguito ai problemi posti dallo sciopero, si è arrivati al fatto che, ad oggi, dall’agenda politica del “cartello”, ossia delle forze promotrici delle assemblee del 12 settembre e del 7 ottobre, i temi al centro dello sciopero del 9 novembre sono scomparsi e, con essi, ogni tentativo di spostare i lavoratori italiani come classe verso lotta politica sia sui temi interni sia su quelli internazionali (ad es. la guerra), che sono per loro natura due facce di una stessa medaglia e che possono essere combattuti solo a partire dai lavoratori e solo in assenza di steccati tematici. Come si vedrà, crediamo, purtroppo, nella costruzione della manifestazione contro la guerra di gennaio.
L’appuntamento invece poteva e doveva essere mantenuto, ancor più se consideriamo il buon esito dello sciopero del 9. Si doveva costruire un percorso verso la manifestazione dal basso, a partire dai luoghi di lavoro e di studio, sulla base chiara di una opposizione di classe alle politiche complessive della borghesia incarnate oggi dal Governo Prodi.
Questa vicenda non fa che dimostrare che questo variegato cartello nazionale non segue la strada della costruzione di un polo di opposizione di classe al Governo e alla politica complessiva della borghesia che esso rappresenta, ma segue invece la strada di manovrare a sinistra del Governo per canalizzare le lotte nell’impossibile tentativo “riformista” di condizionare la politica della borghesia.

La questione del rinnovo contrattuale e le minacce che pesano sul contratto
Anche in occasione dei rinnovi contrattuali, si è lasciato “spazio libero” alle direzioni confederali, che già poco dopo l’approvazione del famigerato protocollo, mentre aiutavano il governo a far passare i suoi attacchi, si sono trovate nella necessità di convocare una serie di scioperi per i rinnovi dei contratti di varie categorie. Questo, sia per una certa spinta oggettiva della base dei lavoratori (che va, come sempre, incanalata) sia per questioni inerenti a questione di rapporti politici interni.
I casi più esemplari di quest’ultima ondata sono stati gli scioperi dei metalmeccanici, del settore del commercio e di quello importantissimo dei trasporti il 30 novembre. Epifani si è spinto anche oltre negli ultimi giorni: sentendo che lo stato d’animo nelle fabbriche e nelle imprese non è certo “sereno”, per non correre il rischio di farsi scavalcare da movimenti spontanei, il leader della CGIL è arrivato a parlare “persino” di un eventuale sciopero generale a gennaio.
Per CGIL, CISL e UIL questo sciopero non mirerebbe a dare una spallata al governo ma a ribadire il ruolo e il peso del sindacato e ad esigere dal Governo “una rinnovata capacità riformatrice”, se nel frattempo non siano andate in porto le trattative sul rinnovo dei principali CCNL.
Tuttavia, mentre oggi portano i lavoratori da una giornata d’azione all’altra senza continuità vertenziale e su obiettivi che, se sugli aspetti salariali quantitativi sono insufficienti, nel complesso fanno proprie le esigenze della borghesia (sugli aspetti dell’organizzazione del lavoro, della precarizzazione, della flessibilità, della sicurezza ecc.), al contempo tacciono sul fatto che uno degli aspetti dell’attuale trattativa sta nella volontà, da parte di alcuni settori imprenditoriale, di farla finita con il CCNL. Anche sulla questione dei rinnovi contrattuali di categoria c’è la necessità di lottare tutti/e insieme, dai metalmeccanici al pubblico impiego, dal commercio ai trasporti, per rompere l’isolamento e acquistare la forza necessaria per rispondere all’offensiva padronale.
È compito di tutte le forze e organizzazioni sindacali e politiche che si pongono sul terreno della lotta di classe quello di costruire, a partire dell’esito della giornata del 9 e sulla base dell’attuale ondata di scioperi, un movimento per unificare le vertenze in atto e strutturare una direzione alternativa alle lotte di oggi. Come abbiamo potuto vedere, non sono tanto e solo le lotte a mancare ma la nostra capacità di scardinare i giochetti sindacali di chi vuole ingabbiare la rabbia e il potenziale di lotta dei lavoratori per usarli eventualmente a favore dei propri interessi di bottega.

Anche in Germania e in Francia le lotte sociali hanno fatto irruzione nel panorama politico attuale
Segnali di reazione arrivano anche – ovviamente – al di fuori dell’Italia. Per limitarci al terreno più puramente “sindacale”, in Germania, in queste ultime settimane, i macchinisti della Deustche Bahn (ferrovie) hanno imposto alla direzione del loro sindacato, il GDL, l’apertura di una lotta i cui obiettivi sono il miglioramento del contratto e un aumento salariale del 30%. Contro la pressione dei mass media e le decisioni di alcuni tribunali del lavoro che volevano limitare il diritto di sciopero, i macchinisti tedeschi hanno indetto ben sei scioperi di massa, costringendo la direzione dell’impresa a dover trattare, dopo aver qualificato queste rivendicazioni come assurde. Non a caso borghesia e governo mostrano seria preoccupazione, nel timore che questo esempio sia ripreso dall’insieme della classe operaia in Germania.
In Francia, lo sciopero di nove giorni dei ferrovieri, unito alla protesta studentesca contro la privatizzazione dell’università e alla giornata di lotta del pubblico impiego del 20 novembre, ha dimostrato che non solo è possibile lottare ma anche che, quando si muove, la nostra classe ha le potenzialità per piegare anche un governo così apertamente reazionario come quello di Sarkozy. Anche questa lotta evidenzia che quello che è mancato ai ferrovieri francesi non sono stati coraggio e determinazione ma la capacità di superare le direzioni vergognosamente collaborazionistiche dei sindacati, a cominciare della stessa CGT, che dall’inizio aveva mostrato chiaramente di voler tradire le ragioni del movimento e di negoziare le modalità d’applicazione della riforma, mentre l’avanguardia dei ferrovieri ne voleva l’abrogazione e avrebbe avuto la forza d’imporla. Intanto nuove azioni e scioperi sono previsti a partire della settimana prossima.

Come provare a strutturare la controffensiva di cui abbiamo tanto bisogno
Anche in Italia non possiamo non registrare la presenza di una spinta dal basso: oltre alle lotte operaie dei mesi scorsi in occasione degli annunci sul ritocco al ribasso delle pensioni del protocollo Damiano, vanno considerate la giornata di sciopero del 9, la partecipazione imponente (in alcuni settori) agli scioperi per il contratto ma anche la larga partecipazione alle manifestazioni del 24 novembre e del 1° dicembre (contro la violenza sulle donne e contro la privatizzazione dell’acqua, a prescindere dal tentativo strumentale della sinistra di Governo di usare queste occasioni in chiave “pompieristica”). È chiaro insomma che esistono delle potenzialità per fare emergere una vera opposizione di classe alla politica della borghesia e a questo Governo che ne è l’incarnazione. Di fronte a chi vuole tradire questa potenzialità, scavalcando preventivamente le lotte, facendole sfociare in giornate di mobilitazione senza una prospettiva reale canalizzando la rabbia esistente, bisogna ribadire la nostra volontà di rimettere al centro del dibattito e della nostra discussione la necessità di ridare centralità alla conflittualità di classe, l’unica capace di articolare tutte le vertenze attualmente in corso in un quadro unico e coerente.
La costruzione di forme di coordinamento trasversali, al di là delle sigle sindacali e delle specifiche appartenenze politiche, di lavoratrici e lavoratori, militanti e attivisti sui luoghi di lavoro e di studio e sui territori, ci sembra l’unica strada per evitare di ripetere l’esperienza delle assemblee nazionali, che sono di fatto appuntamenti pubblici in cui si propagandano decisioni prese altrove, in una sorta di “intergruppi” che non sembra porsi il problema della costruzione di una più ampia e reale base di lotta, legata alle logiche di bottega delle singole organizzazioni, e che non riesce (o non vuole) ad avanzare delle proposte e una pratica realmente ricompositiva e unificante, anche perché rimane prigioniera della sua ala più moderata. Sono i lavoratori e le lavoratrici in lotta, i delegati combattivi, gli attivisti studenteschi che devono poter decidere dell’orientamento dell’opposizione al governo.
Con questi obiettivi – autorganizzazione, autoconvocazione dal basso, trasversalità e chiara opposizione alla politica complessiva della borghesia – abbiamo già indetto a Roma una serie di assemblee autoconvocate prima dello sciopero del 9, in cui siamo scesi in piazza con un nostro striscione.
Crediamo che la responsabilità di fare di tutto per dare una risposta di classe alla fase che stiamo attraversando ricada su tutti noi, su quelle lavoratrici e quei lavoratori sindacalmente attivi, su quei compagni e quelle compagne che, nelle varie strutture e a vari livelli di organizzazione sindacale e politica, si sono espressi pubblicamente e nei fatti nella stessa direzione: la ricostruzione di una chiara opposizione di classe alla politica antiproletaria, razzista e guerrafondaia della borghesia e dei suoi Governi, a cominciare da quello attuale, il Governo Prodi-D’Alema-Bertinotti che ha saputo mettere a segno alcuni degli attacchi antiproletari più pesanti degli ultimi anni.

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