12.1.09

Perché ha vinto Berlusconi e quali sono i nostri compiti attuali (24/04/08)





Perché ha vinto Berlusconi
e quali sono i nostri compiti attuali
Le ragioni di una disfatta

Berlusconi, lo spauracchio dei borghesi democratici, dei benpensanti e radical chic, il terrore, per intenderci, dei vari Nanni Moretti e Michele Serra, ha vinto. E senza dubbio – bisogna ammetterlo– non c’è di che stare allegri: ha vinto una coalizione che annovera tra le sua fila gente profondamente reazionaria e razzista, quella della caccia agli immigrati, dei maiali davanti alle moschee ecc.
Anzitutto, però, non bisogna essere dei geni della politica per capire che il “Kavaliere Nero” non ha vinto principalmente per merito suo. Ma allora perché ha vinto?
Senza dubbio in parte perché questo rientra nel quadro della normale alternanza tipica dei paesi con quadro politico “bipolare”: ogni Governo – quale che ne sia il colore – si fa carico delle necessità del padronato, si fa carico cioè di imporre una politica di sacrifici ai proletari e a vasti strati della popolazione, e già solo per questo, alle elezioni, l’opposizione, qualunque essa sia, parte avvantaggiata (fatti ovviamente salvi altri eventuali fattori, che non rendono questo meccanismo un meccanismo automatico).

Per inciso: bisognerebbe togliersi una volta per tutte le fette di salame dagli occhi e prendere atto che non solo in Italia, con l’alternanza Berlusconi-Prodi-D’Alema, ma nei paesi a capitalismo avanzato in genere non esiste coalizione di Governo che porti avanti un programma politico diverso dalla difesa degli interessi strategici del grande capitale.
Ma andiamo avanti. È inoltre vero che la vittoria del centro-destra è stata anche il frutto di una campagna elettorale condotta da Veltroni e dal PD all’insegna dei valori del moderatismo e persino della destra, riproponendo anche nei toni un “prodismo” bis, una linea apertamente e smaccatamente filo-confindustriale.
Ma questa vittoria, per come si è configurata (con la contestuale sparizione della cosiddetta sinistra radicale, con il boom della Lega ecc.) e per le sue dimensioni complessive (netta maggioranza anche al Senato), è stata anzitutto il risultato della micidiale combinazione di due fattori:

· la politica portata avanti (in tutto il corso dei suoi venti mesi di vita) dal Governo Prodi; una politica che rappresentava gli interessi della grande borghesia nel suo complesso ossia gli interessi degli sfruttatori; una politica nei fatti profondamente antiproletaria e antipopolare e – per fortuna e giustamente – percepita (anche se a livello istintivo) come tale da larghi strati della popolazione;
· la completa subordinazione a questa politica dell'ala sinistra della coalizione, quella che i mass media del padrone chiamano la “sinistra radicale”: PRC, PdCI, Verdi e SD, che alle elezioni si sono presentati insieme nel cartello elettorale della Sinistra Arcobaleno.

Questa subordinazione ha assunto varie forme: dalla parodia del dissenso, al silenzio-assenso, fino all’appoggio pieno e attivo, per esempio della missione militare in Libano. Il tutto condito da siparietti abbastanza rivoltanti, quale quello messo in scena da Bertinotti che ha elogiato pubblicamente i parà della Folgore – tristemente famosa per gli stupri di gruppo in Somalia – nonché la sua partecipazione alla parata militare del 2 giugno con la spalletta arcobaleno sul bavero della giacca.
Tutto il (poco) fatto o detto dalla “sinistra radicale” non è stato null’altro che un simulacro di opposizione interna, essendo chiaro persino ai fessi che questa “sinistra” era alla ricerca disperata di qualunque escamotage che le permettesse di tentare almeno di salvare le apparenze (è il caso di dire: “mission impossible”!).

Altro inciso: in questo quadro epocale, di fase, nelle attuali condizioni la “sinistra radicale” dovrebbe spiegare come fa a ritenere ancora possibile che ci siano spazi per esercitare un ruolo di tipo riformista, mentre è ormai lampante che questa politica non è più praticabile. Dentro quella che subito dopo la disfatta è diventata la “fu Sinistra Arcobaleno” (una nuova forza con ambizioni strategiche a parole; nei fatti, come si vede, un cartello raffazzonato per mere finalità elettoralistiche), ci si scanna tra varie opzioni (in realtà cordate, gruppi di potere), ognuna delle quali, tra discussioni su alleanze larghe e strette, simboli con o senza falci, martelli e soli che ridono, vorrebbe rappresentare una soluzione per uscire dalla crisi. Nessuna di queste però rimette in discussione l’unico punto di cui varrebbe la pena discutere: fallimento e, dunque, abbandono del riformismo, la cui impraticabilità comporta inevitabilmente una completa subalternità alla classe padronale; fallimento e dunque abbandono dell’orizzonte strategico che vede nel sostegno (interno, esterno, critico o integrato, a seconda dei momenti contingenti) al centrosinistra l’unica via possibile per difendere gli interessi delle classi subalterne o anche solo per “limitare i danni”.
Perché i tantissimi che hanno votato NO al Protocollo Damiano, che hanno fatto scioperi, che hanno messo in piedi i movimenti No Tav, No Dal Molin, le manifestazioni contro la guerra ecc., non hanno votato PRC e PdCI (e nemmeno Verdi e SD)? Perché queste forze che, per tenere in piedi il Governo a ogni costo, hanno agitato il ricatto “ideologico” del ritorno delle destre, appunto per questo hanno invece spianato la strada al ritorno di Berlusconi.
Oggi molti analisti e politici “di sinistra” nascondono queste responsabilità oggettive dietro l’alibi del voto operaio alla Lega. Siamo in questo al tipico atteggiamento degli intellettuali borghesi, che quando le cose “vanno male” danno la colpa agli operai, zoticoni e zucconi che non capiscono un accidente. Mentre invece, anche grazie alla parte non trascurabile recitata dall’opportunismo della sinistra, proprio le sconfitte subite dai movimenti e dalla classe hanno fatto crescere la scontentezza e il senso di impotenza tra i settori popolari, favorendo una deriva reazionaria e populista.
La vittima collaterale di questa logica che certo non rimpiangeremo,il cui prezzo reale e salato è stato pagato e sarà pagato innanzitutto dai proletari, è ovviamente la Sinistra Arcobaleno, che è stata clamorosamente sconfitta; una disfatta che era l’unico risultato possibile del riformismo in salsa bertinottiana.
Per chiarezza resta solo da aggiungere che, se l’attuale fase economica generale impone la necessità ineludibile per qualunque Governo borghese, di ogni colore, di un ulteriore e sfrenato peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari e delle classi subalterne, al contempo spunta le armi dell’imbroglio riformista; e tuttavia questo non implica di per sé un'inevitabile radicalizzazione delle masse né un avanzamento delle lotte, come peraltro dimostrano, per quel che valgono, anche gli ultimi risultati elettorali in Italia. Ma ciò che più ci preme sottolineare è che questo non significa nemmeno la sparizione automatica e definitiva dell’opportunismo delle forze della sinistra radicale.


Gli obiettivi del capitale

La borghesia incassa l’importante (e a lungo inseguito) risultato di una semplificazione del quadro politico parlamentare, un “bipolarismo” significativo anche se relativo. In altre parole, si inaugura con più di un decennio di ritardo quella che avrebbe dovuto essere la II Repubblica nei progetti dei settori più moderni e lungimiranti del capitalismo italiano, in sostanza del grande capitale.
Dalle alleanze elettorali e dai risultati esce un esito che taglia l’ala sinistra (e anche quella destra) dello schieramento parlamentare e cancella o riduce anche il peso di una serie di piccoli partiti, la cui principale ragion d’essere è stata la rappresentanza clientelare: si riduce al minimo necessario anche il peso del centro ex DC, che oggi non è più né componente essenziale della maggioranza né ago della bilancia tra gli schieramenti.
Questa tendenza al bipolarismo è molto più compiuta nel PD veltroniano di quanto non lo sia nel centrodestra, alleanza vincente in termini numerici che tuttavia riposa su importanti contraddizioni interne che lasciano perplesso lo stesso padronato. La maggior affidabilità e coerenza del progetto veltroniano, anche rispetto alla prospettiva europeista, è la ragione per la quale Confindustria ha fatto campagna per Veltroni, così come alle scorse elezioni aveva fatto per Prodi.
Il blocco sociale sul quale si fonda il berlusconismo non è capace di rappresentare gli interessi globali della borghesia, come ha già dimostrato in passato sotto i due precedenti governi Berlusconi. Nondimeno la sconfitta di Veltroni testimonia il fatto che la grande borghesia italiana è stata ancora una volta incapace di fare egemonia e di indirizzare i suoi settori subalterni.
Non è stato quindi un caso che subito dopo le elezioni Montezemolo, preso atto del risultato, abbia moltiplicato le pressioni sul futuro Premier, sottolineando che ci fossero i numeri (sulla carta almeno) per fare le cosiddette riforme. Questo significa che, oltre a proseguire gli attacchi ai lavoratori (una costante per tutti i Governi, che Confindustria dà, a ragione, per scontata), Berlusconi deve attuare finalmente quelle “riforme di struttura” che i padroni chiedono a gran voce, facendosi forte dei grandi margini di manovra che i numeri gli danno in Parlamento. Queste “riforme” sono un progetto cui aveva provato a mettere mano anche il precedente Governo (ad esempio col pacchetto Bersani), con un esito però fallimentare dovuto anche all’eterogeneità di interessi di cui era composta la sua coalizione. Ma cosa sono in realtà queste “riforme”? Si tratta, in sostanza, di una ristrutturazione economica, sociale e politica del sistema capitalistico italiano, al fine di renderlo più rispondente agli interessi del grande capitale e più competitivo sul mercato internazionale. Si tratta di ridimensionare economicamente e politicamente quei settori della stessa borghesia che costituiscono un peso per gli interessi di quel pugno di industrie, banche e società che, per dimensioni e livello di concentrazione, vogliono e devono giocare un ruolo nella concorrenza internazionale, acuita dall’attuale quadro di crisi economica e recessione.
Ma proprio questi settori arretrati del capitalismo italiano sono una parte importante del blocco sociale su cui riposano il berlusconismo e i suoi alleati. Per questa ragione il berlusconismo costituisce per la grande borghesia una soluzione problematica, non solo per la mancanza di un rapporto privilegiato con la burocrazia sindacale (a differenza del centrosinistra), cosa che comporta una maggiore capacità di controllo dei settori proletari (un controllo molto utile quando si tratta di tagliare per la terza o quarta volta le pensioni), ma anche per il fatto che il blocco sociale del centrodestra è troppo portato a una difesa di interessi regionali, particolari, clientelari, (e anche personali), in cui non può riconoscersi complessivamente il grande capitale, per sua natura antiparticolare e proiettato a livello internazionale.
In questa chiave vanno lette le dichiarazioni di Maroni e Tremonti sul fatto che questo Governo non ripeterà gli errori dell’articolo 18 (in altre parole, niente più scontro frontale con i sindacati confederali), dichiarazioni apprezzate da Epifani (“il sindacato non può fare le barricate preventive e stare 5 anni all’opposizione”). D’altronde le polemiche demagogiche e populiste dei settori del centrodestra contro la globalizzazione e il liberismo eccessivo sono segnali che fanno sempre storcere la bocca al grande capitale, il quale, attraverso le dichiarazioni di Montezemolo e della Marcegaglia, rispettivamente presidente uscente ed entrante di Confindustria, fa pressione sia sul Governo che sui sindacati Confederali. Inutile dire che anche lo smantellamento del contratto nazionale (a favore di una contrattazione decentrata che lascia molto più spazio all’arbitrio padronale) rientra in pieno nelle riforme richieste.


I nostri obiettivi


La vittoria di Berlusconi rappresenta, sotto molti punti di vista, una svolta a destra della situazione nazionale, che tuttavia non preclude di per sé la possibilità di mettere in campo un ciclo di lotte significative nel prossimo periodo, così come, per esempio, l’importante vittoria di Sarkozy nel 2007 non ha significato un azzeramento delle lotte e del movimento di classe, anzi.
Probabilmente i pesanti attacchi (già preannunciati da Berlusconi) alle condizioni di lavoro, al salario (globalmente inteso) e alla classe in generale (a cominciare dai suoi settori più deboli come gli immigrati) non mancheranno di suscitare un'opposizione nelle fabbriche, nelle piazze, università ecc. Il grande problema sta invece nel come affrontare questi attacchi e nel come costruire una risposta in grado di contrastare la futura offensiva padronale. Il bilancio dell'ultima esperienza del Governo Prodi è infatti chiaro. Si è rilevata non solo fallimentare ma addirittura nociva la logica della pressione, una pressione tentata dalla sinistra di governo sul suo Governo e da pezzi della sinistra-sinistra sulla sinistra di governo. Parliamo, per esempio, della cosiddetta e variegata area della sinistra CGIL, di Lavoro e Società, della Rete 28 aprile di Cremaschi e anche, di (buona?) parte, del sindacalismo di base; a livello politico, parliamo dell’area variegata e non omogenea degli ex disobbedienti e di Sinistra Critica, che si è dimostrata completamente prigioniera di questa logica. Un discorso a parte andrebbe fatto per il PCL di Ferrando, che ha raccolto 200.000 voti (alla Camera) ed è posto di fronte alla importante responsabilità di trasformare un peso politico non trascurabile – sovradimensionato rispetto alla sua forza militante reale – in un reale strumento al servizio della lotta anticapitalistica.
Questa logica prevede come unico e strategico orizzonte una pressione esercitata dalla sinistra (peraltro principalmente attraverso gli strumenti istituzionali e parlamentari) sul suo Governo, sul Governo che essa stessa contribuisce a sostenere, con la finalità di ottenere uno spostamento (grande o piccolo) della sua politica; logica ben diversa da quella che prevede conquiste e risultati, anche parziali, che è sempre possibile strappare a ogni Governo dei padroni ma a mezzo della lotta.
Dal punto di vista sindacale, non si può escludere, in caso di una ripresa della conflittualità, che il sindacalismo confederale, o quantomeno la CGIL, metta in campo un nuovo ciclo “cofferatiano” tipo 2001-2004, che come allora svolga la funzione di canalizzare le lotte e cavalcarle, depotenziandole e al contempo utilizzandole come strumento di rafforzamento del centrosinistra e della sinistra in prospettiva dell’alternanza.
Quello che invece è già chiaro e pacifico è il fatto che la “sinistra radicale” e l’opportunismo in genere non sono affatto morti. Come dicevamo all’inizio, la sconfitta elettorale non significa affatto la loro sparizione automatica. L’opportunismo ha settantasette vite e mille strumenti ideologici e politici: anche in questo quadro economico e politico, che rende impraticabile e di fatto impossibile una politica di riforme e concessioni per ingabbiare la classe proletaria, esso è lontanissimo dall’essere un problema chiuso. Come volevasi dimostrare, la sinistra radicale sta preparando in questi giorni una controffensiva, dimostrando che è ancora in grado di esercitare un certo peso sui movimenti (e in prospettiva anche sulle eventuali lotte), con l’evidente obiettivo di recuperare alla svelta il consenso perduto; una controffensiva che riparte dalle celebrazioni del 25 aprile, dal ballottaggio per il sindaco di Roma e che ha in generale come base operativa le amministrazioni locali dove essa governa ancora insieme al PD.
Sul fronte delle forze “di sinistra”, dunque, il quadro che avremo di fronte nel breve e medio periodo, dovrebbe essere il seguente:
· un probabile o quantomeno possibile (anche se, come già detto, non certo scontato) “spostamento a sinistra” del sindacato confederale (o della sola CGIL);
· un sicuro riposizionamento a sinistra della “sinistra radicale” e dei settori che sono a essa legati o, comunque, da essa influenzati: PRC e PdCI faranno di tutto per rifarsi il maquillage e per ripresentarsi dentro quei movimenti, quelle istanze e quelle lotte che loro stessi, fin che sono stati al Governo, hanno abbandonato, ignorato, depotenziato e contribuito a rendere inoffensive. Per farlo dovranno necessariamente riprendere i toni radicali che furono loro una volta (prima dei due anni al Governo), toni che, sia chiaro, non possono nascondere la sostanza opportunista e, in ultima istanza, elettoralista; il tutto, ovviamente, non certo nell’interesse dei lavoratori e dei settori sociali che questi soggetti dicono di voler rappresentare, ma invece in funzione della costruzione delle condizioni per un ritorno del centrosinistra al Governo.

Un primo e significativo esempio di questo “nuovo corso” che nuovo non è ci è fornito dall’operazione 25 aprile. Degno di nota è il battage pubblicitario messo in piedi per l’occasione, all’insegna della Liberazione… da Berlusconi e del NO ai fascisti… in Campidoglio, che a Roma ha significato, concretamente una pubblica chiamata di quasi tutti i centri sociali (di area disobbediente ma non solo) a votare per Rutelli, finendo così per trasformare il 25 aprile in una kermesse elettorale a favore della giunta di centrosinistra della capitale. Che l’operazione sia questa è reso bene dal fatto, paradossale solo in apparenza, che il comunicato della assemblea cittadina per la costruzione del 25 aprile conferma quello che a parole vuole smentire, e cioè che sarà una giornata pro-Rutelli, quando dice: “ogni intento di voto è lasciato alla libera coscienza personale o percorso politico e sociale che partecipa alla costruzione del 25 aprile, consapevoli della contingenza storica particolare, a due giorni dal ballottaggio elettorale che vede la possibilità che lo squadrista Alemanno divenga sindaco di Roma.”. Più chiaro di così si muore. Da notare infine che questo avviene dopo che si è fatta fallire la proposta (lanciata dai Cobas quando Prodi era ancora al governo) di una manifestazione nazionale e unitaria per il 1° maggio, che rompesse finalmente con le solite squallide e inoffensive messe in scena egemonizzate dai sindacati concertativi & Co.

In questo quadro c’è da discutere delle nuove proposte fatte all’interno del movimento. In primis, l’indizione da parte di Cobas, RdB e SdL di un'Assemblea Nazionale di lavoratori e delegati per il 17 maggio a Milano, che – come dichiarato – ha il compito di lanciare uno sciopero generale contro il Governo. La differenza che passa tra l’essere questa una proposta utile o dannosa sta – a nostro parere – in queste discriminanti:
1) sui contenuti. Bisogna dire chiaramente che è necessario lottare contro questo Governo per gli stessi motivi per cui si doveva lottare contro quello precedente;
2) la proposta di costruzione dello sciopero deve essere allargata a tutte le organizzazioni che si riconoscono sui contenuti. “Curioso” invece che i promotori (quelli stessi che sulla questione del Fronte del No al Protocollo Damiano hanno accuratamente evitato di richiamare alla coerenza le forze del sindacalismo, che proclamano di non avere governi amici e poi sembrano dimenticarsene quando si tratta di passare dalle parole ai fatti) abbiano volutamente evitato di coinvolgere fin dalla costruzione le altre forze del sindacalismo di base (con cui pure avevano scioperato a novembre), escludendo innanzitutto lo SLAI Cobas, che invece si era dichiarato disponibile e che per pratica sui posti di lavoro è una organizzazione tra le più conseguenti e radicali;
3) che lo sciopero non sia solo proclamato dall’alto ma sia costruito dal basso e preparato sui posti di lavoro e sui territori, attraverso assemblee trasversali di lavoratori e lavoratrici, sindacalizzati e non, stabilizzati e precari, italiani e immigrati, come non è stato fatto per quello contro il Protocollo Damiano.

In sintesi: l’obiettivo è che lo sciopero riesca il più ampio possibile, che faccia “del male”, che lasci qualcosa in termini di capacità di mobilitazione e autonomia politica oppure che diventi un’ennesima iniziativa calata dall’alto per fare da sponda all’opposizione parlamentare?

Una sponda avvelenata che ha, e non poco, contribuito a strozzare tutti i recenti tentativi di creare un cartello di forze nazionali su temi come l’opposizione alla guerra, la difesa dei lavoratori, o lo sciopero generale (Patto NO war, Patto sul lavoro e sciopero generale di novembre).

L'alternativa che avremo di fronte nel prossimo futuro è questa: lasciare campo libero all'iniziativa delle forze di sinistra che sono opportuniste; lasciare che queste riconquistino il consenso perso per ritrovarci, un domani, punto e a capo nella situazione di oggi oppure cercare di ricostruire almeno un abbozzo di autonomia politica degna di questo nome?
Sarà possibile costruire un movimento d’opposizione sociale, nei posti di lavoro e nelle piazze, che sia ampio, unitario ma in primo luogo non subalterno alle logiche di pressione sul centrosinistra né tanto meno direttamente trasformabile in uno strumento elettorale dei settori di sinistra della borghesia?
Sarà possibile costruire un’opposizione di classe in Italia, che costituisca il necessario punto di riferimento politico per queste lotte?
Se sì, lo sarà solo su questa base, costituita dalle lotte, dai percorsi per la loro preparazione, dalle battaglie per la nostra indipendenza politica dalla sinistra radicale, vera e propria quinta colonna della borghesia dentro le nostre file.

Per queste ragioni il nostro obiettivo deve essere quello di contribuire alla massima ampiezza dell’opposizione sociale a Berlusconi e a Confindustria, dando però battaglia dentro questo movimento affinché questa opposizione, per essere reale ed efficace, sia anche un'opposizione ai progetti del centro sinistra. Deve per forza essere un'opposizione di classe in chiave anticapitalistica. Su questa base noi intendiamo intervenire nel prossimo futuro.

Roma, 24 aprile 2008
fotinprop.

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