29.3.09

Manifestazione G-14 (28/03/09)


Anche in Italia la crisi potrebbe costringere alla lotta settori sempre più ampi di lavoratori
E’ necessario un salto di qualità anche da parte del sindacalismo di base

Alle compagne e ai compagni della manifestazione del 28 marzo


Gli effetti politici e sociali della crisi sono appena all’inizio. Anche i borghesi fanno paragoni con quella del '29, ammettono che è in pieno corso, che non se ne vede la fine e che i suoi effetti politici e sociali sono appena incominciati.
Acutizzando le contraddizioni economiche, politiche e ovviamente sociali questa crisi – è sotto gli occhi di tutti – sta “costringendo” i lavoratori e i settori popolari di tutti i paesi a scendere in campo. Si susseguono, uno dopo l’altro, esempi “eclatanti”: la rivolta operaia e giovanile di Grecia, la Lettonia, in cui è caduto il governo dopo massicce mobilitazioni popolari con duri scontri a Riga, l’Irlanda, in cui i sindacati concertativi sono stati addirittura costretti a chiamare la mobilitazione per i pesanti tagli salariali al settore pubblico. Si prova a liquidare questi fatti come possibili solo dentro gli “anelli deboli” dell’Europa del capitale.
Ma non è così: è il cuore stesso del capitale ad esserne investito, con effetti sempre più dirompenti nell'immediato futuro. Si è appena chiusa con risultati importanti (vedi riquadro sul retro) la lotta straordinaria delle Antille francesi (Guadalupa in testa), dove per oltre due mesi lavoratori e settori popolari si sono scontrati con il Medef (Confindustria) e il Governo Sarkozy, rispolverando le vecchie ma sempre attuali ed efficaci armi della lotta di classe; mentre la Francia “continentale” veniva squassata da scioperi prolungati (otto settimane di sciopero all'università), scioperi generali e vertenze durissime: due casi hanno già guadagnato la ribalta internazionale perché gli operai, di fronte all’annuncio dei licenziamenti, si sono barricati sequestrando il manager di turno.

Anche in Italia la crisi sta mettendo in moto settori di classe. Dalla lotta coraggiosa dei lavoratori Alitalia (che hanno rischiato in prima persona) che, invece di essere presa come occasione per costruire un fronte trasversale alle categorie, è stata assurdamente lasciata isolata e abbandonata a se stessa; alla lotta dei settori studenteschi e della scuola contro i tagli, a quella dei lavoratori di Pomigliano, dei lavoratori delle cooperative DHL (Origgio), dell’INSE di Milano, e a tante altre.
È chiaro che, nel complesso, si è trattato di episodi diffusi e spontanei che non sono finora riusciti a scavarsi un percorso verso la propria unificazione in una lotta generale, di classe contro classe, in quanto tale capace di rimettere in discussione i rapporti di forza complessivi tra lavoratori e padronato. Ma non si può non registrare che una tendenza alla crescita della conflittualità sociale esiste, è operante e inevitabile, “aggravata” dal fatto che, tra i paesi forti d’Europa, l’Italia è uno di quelli più a rischio. Il suo equilibrio economico (a cominciare dal sistema bancario) desta nelle élite della borghesia internazionale la massima preoccupazione, a dispetto delle rassicurazioni di Berlusconi che continua a riproporre lo stesso quadretto tutto sommato confortante.

Nell'immediato futuro, anche in Italia si potrebbe prevedere la moltiplicazione delle lotte per numero e intensità, ma questo non significa affatto che automaticamente troveranno la strada verso la loro riunificazione; e neanche (più modestamente) che automaticamente un numero maggiore di lavoratori, romperanno finalmente con i metodi concertativi della burocrazia confederale.
Inoltre va sottolineato che è sempre possibile che il disagio diffuso – o parte di esso – vada verso derive populiste di “destra”, fenomeno che peraltro è già in atto.
Ma il punto che qui ci preme porre alla riflessione sta nel fatto che molto dipende dalla capacità politica delle forze rivoluzionarie e/o di classe, che operano sul piano politico e/o sindacale:

1. capacità di individuare e porre di fronte alle lotte degli obiettivi in grado di far avanzare la classe nel suo complesso, l’insieme dei lavoratori; 2. grazie a questo, capacità di essere riconosciuti come punto di riferimento da parte di settori significativi (per numero e per combattività) di lavoratori.

Molti dei nostri (pochi) compagni hanno lavorato e lavorano all'interno delle organizzazioni del “sindacalismo di base”, che sappiamo benissimo essere un insieme di forze eterogeneo. Proprio per questo sentiamo la necessità di porre con chiarezza alcune questioni politiche.
Per fare sì che le lotte prendano la direzione giusta, dobbiamo contrastare l’egemonia e l’influenza della borghesia sulla nostra classe; dobbiamo strappare settori sempre più ampi di lavoratori a questa influenza, esercitata attraverso i partiti borghesi e le organizzazioni sindacali concertative.
Come? Secondo noi la situazione impone un salto di qualità.
Crediamo di poter dire che non è più il tempo (se mai lo è stato) di avere come obiettivo quello di fare qualche decina all’anno di tessere sindacali in più, magari strappandole ai confederali.
Dobbiamo ricostruire un fronte unitario di lavoratori sufficientemente ampio da poter rimettere in discussione il rapporto di forze.

Non è più tempo di proporre ai lavoratori di fare scioperi rituali una volta ogni due mesi, come se si trattasse di andare a messa la domenica. Bisogna incominciare a porre il problema della efficacia delle forme di lotta. Bisogna incominciare, nelle occasioni ove è possibile, a porre la questione che gli scioperi devono essere reali e non rituali, devono durare quanto serve per fare male al padrone. E questa questione deve essere posta e discussa anzitutto a cominciare dagli scioperi che proclamiamo noi. Anche le forme di lotta proposte possono e devono essere uno spartiacque che divide chi vuole risultati da chi si nasconde dietro parole roboanti. Padroni e Governo si stanno già attrezzando per stroncare sul nascere fenomeni di insubordinazione operaia (criminalizzazione del movimento e delle lotte più radicali, campagne istituzionali razziste e xenofobe, ecc.).
Non è più tempo di giustificare i propri errori con la scusa che i lavoratori non capiscono e non si muovono e che è tutta colpa loro. Bisogna riacquistare la capacità di rimettere in discussione le proprie scelte, di fare autocritica nei molti casi in cui, per usare un eufemismo, qualcosa “non ha funzionato”: tanto per fare un esempio, oltre all’Alitalia, citiamo la questione delle scelte (a cominciare dalla tempistica) in merito agli scioperi contro il protocollo Damiano; ma l’elenco potrebbe continuare...

Contrastare l’egemonia della CGIL non significa affatto far finta che non esista o risolvere il problema con la cronaca delle loro malefatte, ripetuta e illustrata in 1000 volantini. I lavoratori – la massa – impara più attraverso l’esperienza collettiva acquisita durante la lotta che attraverso questi 1000 volantini pieni di belle parole. Bisogna affrontare il problema di rivolgerci a tutti i lavoratori, anche a quelli degli altri sindacati, di rivolgerci alle lotte, anche quando sono dirette dalla burocrazia confederale, di parlare a tutti i lavoratori che si mobilitano, anche a quelli che restano sotto l’ombrello o l’orizzonte confederale. Bisogna porsi l’obiettivo di guadagnare la direzione di queste mobilitazioni, stando all'interno delle vertenze che nascono nei posti di lavoro.
È proprio chi preferisce starsene rinchiuso nel proprio cantuccio, magari per paura di sporcarsi le mani, senza confrontarsi e scontrarsi con la direzione della CGIL che, in fin dei conti, fa un favore a Epifani.

In poche parole, bisogna lavorare per un fronte unitario e trasversale di tutti i lavoratori, indipendentemente dalla loro tessera sindacale; e, quindi, riproporre il problema delle forme di organizzazione delle lotte, le quali, se devono essere unitarie e trasversali, non possono che essere forme di organizzazione assembleare, dove sono i lavoratori di ogni posto di lavoro a prendere le decisioni rispetto agli obiettivi e alla organizzazione.

SE LA CRISI VOGLIAMO FARLA PAGARE AI PADRONI DOBBIAMO REIMPARARE A COSTRUIRE FRONTI UNITARI DI LOTTA E A FARE LOTTE DURE, DECISE E DURATURE



Collettivo Comunista di via Efeso (Roma), 28/03/09




Sciopero in Guadalupa e in Martinica

Oltre 50 giorni di sciopero a oltranza fanno retrocedere Governo e Confindustria francesi

Guadalupa e Martinica, colonie dello Stato francese, ufficialmente “territori d’oltremare”.

I lavoratori antillesi hanno ricordato a chi lo avesse dimenticato che cos’è una vera lotta.
Obiettivi e forme di lotta decisi in assemblee generali sui posti di lavoro e sul territorio. Picchetti volanti di scioperanti, blocchi stradali, paralisi della produzione e del commercio. Controllo dei lavoratori sulla distribuzione. Operai della canna da zucchero a fianco dei giovani e degli studenti medi e universitari. Manifestazioni massicce per rafforzare il consenso della popolazione. Resistenza a fronte dei tentativi repressivi della polizia francese. Organizzazione dei lavoratori e degli studenti attraverso due potenti coordinamenti di organizzazioni sindacali e politiche: l’LKP (Lyannaj Kont Pwofitasyon, Coordinamento Contro lo Sfruttamento) in Guadalupa e il Collettivo del 5 Febbraio in Martinica.

Entrambe le lotte hanno ottenuto, tra le altre rivendicazioni, 200 euro d’aumento salariale, misure contro il carovita, la precarietà e la discriminazione razziale. Questi risultati non significano di sicuro un ribaltamento del rapporto di forze ma certamente rappresentano una netta sconfitta politica per la Confindustria e il Governo francesi.

Assemblea pubblica a Economia-La Sapienza (via Castro Laurenziano)
aula VIb, martedì 31 marzo - ore 17

Ne parliamo con Jean-Marie Nomertin, dirigente della CGTG e portavoce dell’LKP, in diretta dalla Guadalupa, Piero Bernocchi (Conf. Cobas), Geraldina Colotti (Il Manifesto).

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